Dopo mesi di pressing ai massimi livelli da parte di colossi come Nvidia, AMD, Broadcom e una discreta fetta di Capitol Hill, la futura amministrazione Trump sta lavorando a una revisione delle famigerate restrizioni note come AI Diffusion Rule. Si tratta del classico esempio di legislazione partorita nel panico, vestita da sicurezza nazionale, ma cucita addosso a un’agenda economica che sa di protezionismo con una spruzzata di Guerra Fredda digitale.

La norma, introdotta a gennaio dal team Biden, intendeva limitare l’esportazione di chip AI avanzati verso Paesi “non amici”, dividendo il mondo in tre fasce con livelli crescenti di sospetto. Il primo gruppo, che include 17 Paesi più Taiwan, ha accesso illimitato agli acceleratori AI. Il secondo – circa 120 Stati – riceve le briciole sotto forma di tetti quantitativi. Il terzo, naturalmente, è la gabbia di Faraday geopolitica: Cina, Russia, Iran e Corea del Nord non ricevono nemmeno un transistor.

Una bella idea su carta, almeno per chi vive di illusioni strategiche. Ma appena la polvere si è posata, le prime crepe sono emerse con violenza: la legge danneggia in primis chi produce quei chip – leggasi Nvidia e soci – e non ferma affatto l’avanzata di chi sa clonare, aggirare, o peggio ancora, comprare la tecnologia tramite triangolazioni offshore. Così, mentre le tensioni con Pechino crescono e le esportazioni calano, Silicon Valley grida alla follia protezionista. Nvidia, senza mezzi termini, ha definito la regola “senza precedenti e fuorviante”, un potenziale freno all’innovazione globale e al dominio statunitense nel settore.

Secondo fonti interne citate da Reuters, la futura amministrazione Trump starebbe pianificando modifiche sostanziali. Tra queste, il possibile smantellamento del sistema a “tre livelli” e l’introduzione di un licensing globale bilaterale, con accordi government-to-government, che sa tanto di vecchia diplomazia del Pentagono camuffata da controllo high-tech. C’è anche l’idea di abbassare la soglia minima per richiedere una licenza di esportazione, rendendo il tutto più flessibile e meno penalizzante per le aziende USA.

La posta in gioco è altissima. Nvidia, in particolare, è uno dei pochi player capaci di fornire i chip necessari per addestrare i modelli di intelligenza artificiale generativa – quelli che stanno rivoluzionando non solo la tecnologia, ma l’economia e il potere stesso. Limitare l’export non significa solo ridurre i ricavi, significa regalare spazi all’Europa, alla Corea del Sud e sì, anche alla Cina, che già lavora su cloni ARM locali e ha piani di auto-sufficienza a medio termine.

Dietro a questa battaglia normativa si celano due visioni opposte: da una parte, la linea dura dell’America First 2.0, dove la sicurezza è prioritaria anche a costo di sacrificare il libero mercato. Dall’altra, quella dell’hypercapitalismo tech, dove ogni barriera è vista come una tassa sull’innovazione e un’opportunità per i competitor esteri.

Ma siamo sinceri: pensare di contenere la diffusione dell’intelligenza artificiale bloccando i chip è come cercare di fermare internet con un fax. Il software si evolve, i modelli open source proliferano e il know-how circola più veloce delle merci. Le aziende USA, abituate a dominare il mercato, non sono disposte a fare da vittime sacrificali sull’altare della strategia.

In tutto questo, Trump si ritrova con una bomba a orologeria regolatoria che deve disinnescare senza scontentare né Wall Street né il Pentagono. Una bella partita a scacchi, dove le regole cambiano mentre si gioca e dove il vero rischio è che l’America, nel tentativo di blindare la sua leadership, finisca per perdere proprio il vantaggio competitivo che cerca disperatamente di proteggere.

La domanda ora è: sarà un compromesso elegante o l’ennesimo pasticcio bipartisan camuffato da strategia?