C’è qualcosa di profondamente ironico – e persino grottesco – nel vedere Elon Musk, il più teatrale dei capitalisti ipertecnologici, salire in cattedra come difensore della purezza filantropica. In un’aula di tribunale federale, davanti alla giudice Yvonne Gonzalez Rogers, va in scena un dramma che non riguarda solo contratti infranti o donazioni idealistiche mal ripagate, ma il cuore stesso dell’ipocrisia dietro molte “nonprofit” della Silicon Valley: sono incubatrici di profitti camuffate da enti morali.

La notizia è che la giudice ha decimato l’accusa: 11 delle 16 rivendicazioni presentate da Musk contro OpenAI sono state stracciate senza pietà. Addio quindi alla narrativa del contratto esplicito tra Musk e l’originaria OpenAI e addio all’idea che Microsoft abbia “istigato” la frode. Roba da soap opera legale. Tuttavia, ciò che resta in piedi ed è tutt’altro che banale è l’accusa che OpenAI abbia violato un contratto “implicito” con Musk tentando la mutazione genetica da no-profit a macchina di profitti.

È qui che il contenzioso assume il sapore di una guerra ideologica travestita da disputa contrattuale. Secondo Musk, OpenAI aveva una missione: garantire che l’intelligenza artificiale fosse un bene collettivo. Poi, il colpo di scena: entra Microsoft, entrano miliardi, esce la vocazione etica. E Musk si trasforma nel cavaliere nero della trasparenza, pur avendo fondato xAI, una concorrente diretta di OpenAI. In altri tempi, avremmo chiamato questo un conflitto d’interessi. O una vendetta camuffata da causa morale.

Ma non finisce qui. OpenAI ha lanciato un contrattacco politico: una lettera inviata dal legale Ann O’Leary, ex capo dello staff di Gavin Newsom, a una certa Coalition for AI Nonprofit Integrity, insinuando che dietro ci sia proprio Musk. La coalizione ha sostenuto un disegno di legge californiano che avrebbe potuto bloccare la conversione di OpenAI a società for-profit. La legge è stata riscritta, il rischio normativo è svanito, ma il sospetto e l’odore di guerra sporca resta nell’aria.

Becky Warren, portavoce della coalizione, respinge l’insinuazione come “una tattica intimidatoria”. E tra i supporter della coalizione spuntano nomi pesanti: il professore di Harvard Lawrence Lessig, ex dipendenti di OpenAI e persino i genitori di Suchir Balaji, un ex ricercatore OpenAI scomparso prematuramente. Questo non è più solo un processo. È un referendum sull’identità di OpenAI e, più in generale, su quella zona grigia dove le nonprofit della Silicon Valley si trasformano in unicorni da miliardi mascherati da idealismo.

La giudice ha rifiutato anche il friend of the court brief presentato da ex dipendenti di OpenAI contrari alla conversione, definendolo legalmente poco utile. Insomma, nella sua visione, il diritto non ha spazio per rimpianti etici o nostalgie da laboratorio di ricerca.

Intanto Musk ha tempo fino al 7 maggio per rispondere alle contromosse di OpenAI. Ma al di là delle scadenze legali, questa storia continuerà a rivelare molto più di quanto le carte del tribunale riescano a contenere. Parla di come le startup oggi fingano umiltà etica per attrarre fondi e talenti, salvo poi premere l’interruttore e diventare colossi commerciali con la benedizione del venture capital.

OpenAI è nata come un sogno collettivo, si è trasformata in una gallina dalle uova d’oro. Elon Musk l’ha capito. La domanda è: vuole salvarla… o solo strapparle il becco?