Nel gran teatro dell’intelligenza artificiale, Baidu ha appena aggiunto una nuova scena dal sapore vagamente disneyano: un sistema per tradurre i suoni degli animali in linguaggio umano. No, non è il sequel del Dottor Dolittle, ma una domanda di brevetto pubblicata dal governo cinese che fa notizia più per il potenziale mediatico che per l’effettiva applicabilità industriale. Perché dietro ogni abbaio che diventa frase, c’è un algoritmo che promette più di quanto la scienza possa realisticamente mantenere, almeno oggi.
Il documento del brevetto parla chiaro — e in modo piuttosto ambizioso. Il sistema raccoglie una serie di dati dall’animale target: voce, linguaggio del corpo, cambiamenti comportamentali e segnali biologici. Tutto per arrivare a un’interpretazione dell’emozione che l’animale sta provando. Da lì, il passaggio alla “traduzione” in linguaggio umano diventa una questione di modelli predittivi, machine learning, reti neurali e natural language processing. Una catena tecnologica complessa quanto l’idea stessa che un cane possa dire “non mi piace questo croccantino”.
Eppure Baidu non è certo nuova a scommesse improbabili. Dietro l’IA che interpreta gli animali, ci sono le stesse logiche che muovono le auto autonome o le app di e-commerce predittivo: estrarre valore da ogni singolo microdato, trasformandolo in insight, prodotto, o se proprio va male… in pubblicità personalizzata. Non è un caso che nello stesso pacchetto di brevetti pubblicati ci sia anche un algoritmo che suggerisce live shopping in base al comportamento di altri utenti, o uno per la gestione delle ricariche automatiche nei veicoli elettrici. L’animale parlante, insomma, è solo la facciata più tenera di una strategia molto più pragmatica.
Ora, il fatto che il brevetto sia stato solo pubblicato e non ancora concesso è irrilevante dal punto di vista narrativo. I tempi stimati per un esame completo — da uno a cinque anni — sono perfettamente compatibili con l’obiettivo primario: posizionare Baidu come innovatore globale nell’IA, e magari far girare qualche headline virale in occidente. In un mondo in cui le startup raccolgono milioni per “toelettatori digitali” o sensori per l’umore del gatto, questa mossa non è fuori scala. Anzi, è il passo successivo in una timeline che va da Bowlingual a Meowlingual, fino al dimenticato crowdfunding di No More Woof nel 2014.
Certo, se si guarda al panorama più ampio, la Cina sta accelerando pesantemente su ogni fronte dell’intelligenza artificiale, cercando di ridurre il gap percepito con modelli come ChatGPT. Ma mentre OpenAI lavora su general purpose agents che possono gestire workflow complessi in linguaggio naturale, Baidu scommette anche sull’aspetto emotivo, quasi sensoriale, del machine learning. È una differenza culturale e strategica: da una parte la centralità dell’efficienza e della produttività, dall’altra un’IA che cerca di “sentire” prima di parlare.
Il che ci porta all’interrogativo finale, quello che conta davvero: Baidu vuole davvero vendere un collare che ti dice se il tuo cane è triste, o sta costruendo un dataset colossale di biosegnali animali per addestrare reti neurali future su pattern emozionali più generici? In entrambi i casi, il vantaggio competitivo è chiaro. Ma è altrettanto chiaro che in questo momento, più che un’innovazione utile, si tratta di una raffinata operazione di branding, camuffata da pet tech.
Sarà interessante vedere se questa IA riuscirà mai davvero a tradurre un miagolio in un “voglio attenzione” coerente. Ma fino ad allora, restiamo nel regno della provocazione tecnologica. E del marketing che, per una volta, abbaia più forte di quanto morda.