Nel teatro globale della ricchezza e del potere, Bill Gates sta riscrivendo la sceneggiatura. Non con i toni sommessi di un benefattore tradizionale, ma con l’eleganza glaciale di chi ha deciso che fare il bene non basta più: ora serve fare la guerra, anche se con i guanti bianchi. La recente decisione di chiudere la Bill & Melinda Gates Foundation entro il 2045 non è solo un atto filantropico accelerato, ma un’operazione chirurgica contro il disfacimento sistemico dell’ordine liberale, con un bersaglio preciso: Donald Trump. O più precisamente, il modello politico-corporativo che Trump rappresenta.
È la prima volta che Gates, l’uomo che ha fatto del quiet influence un’arte, si espone in modo così radicale. Fino ad oggi ha predicato sobrietà, pazienza e soprattutto razionalità: niente check da campagna elettorale, niente endorsement urlati. Solo strategia, impatto, ROI etico. Ma ora il gioco è cambiato. Il tycoon della filantropia ha deciso di spendere tutto, e farlo in fretta. Oltre 100 miliardi di dollari il patrimonio della fondazione più gran parte del suo stesso patrimonio personale — saranno riversati in progetti sanitari, istruzione, sviluppo globale, con particolare attenzione al Sud del mondo. È una corsa contro il tempo, ma anche un messaggio sibilante ai suoi pari: la vera opposizione al populismo la fa chi ha i mezzi, non chi urla slogan.
Gates ha compreso una verità spietata: il denaro nelle mani dei miliardari oggi ha più potere trasformativo di qualsiasi Congresso, qualsiasi partito, qualsiasi programma politico. La sua scelta di distribuire capitale direttamente in iniziative concrete, bypassando i canali della politica americana ormai irrimediabilmente contaminati da tribalismo e incompetenza, è un atto di accusa e insieme una lezione. Non si limita a criticare Trump. Lo demolisce, simbolicamente e operativamente, con la sola forza di un modello diverso di potere: calmo, efficiente, disumano nella sua apparente neutralità.
Il riferimento diretto a Elon Musk, definito “coinvolto nella morte dei bambini più poveri del mondo”, non è uno scivolone emotivo, ma una dichiarazione di guerra. Gates ha rotto il codice implicito tra plutocrati, secondo cui i miliardari non si attaccano pubblicamente. Ha deciso che l’epoca del silenzio è finita. Se Musk vuole giocare al Machiavelli con i razzi e i social network, Gates ha scelto di vestire i panni del filosofo re platonico: lontano dai riflettori, ma con una visione sistemica che va oltre la Silicon Valley.
Non sorprende che abbia scelto proprio questo momento per accelerare. L’intelligenza artificiale, la biotecnologia, l’automazione della medicina e dell’istruzione sono al punto di svolta. In questo scenario, ogni dollaro conta come dieci. Gates lo sa: se oggi puoi salvare un milione di vite con una tecnologia predittiva per i vaccini, domani potresti letteralmente riprogettare l’umanità. E se il vuoto lasciato dagli Stati Uniti nei paesi in via di sviluppo non viene colmato, qualcun altro — Cina, Russia o peggio — lo farà. Ecco perché ogni centesimo della sua fortuna non è solo un atto caritatevole, ma una mossa geopolitica.
Questa non è più filantropia, è architettura sociale ad alta intensità di capitale. È l’uso di strumenti privati per riscrivere equilibri pubblici. È Gates che guarda il collasso dell’impero democratico americano e decide di costruire una governance parallela. Con fondi, idee, tecnologia, ma senza intermediari corrotti o partiti allo sbando. Lo fa senza cercare consenso, perché il consenso è diventato irrilevante quando si può agire direttamente sulla struttura della realtà.
È un modello replicabile? Sì, ma solo da chi ha una visione e i miliardi per implementarla. Per gli altri, restano i tweet indignati. I miliardari che vogliono combattere Trump non devono finanziare le campagne democratiche – un pozzo nero senza fondo – ma investire come Gates: in infrastrutture morali, sanitarie, cognitive. Chi possiede i dati, la sanità, l’istruzione, possiede il futuro. Gates lo ha capito prima di tutti.
E per una volta, ha smesso di parlare sottovoce. Il suo testamento da vivo è chiaro: i soldi si spendono da vivi, e si usano per distruggere l’ignoranza, non per comprarla.