Houston, abbiamo un problema. E non è un bug. È un’intera industria che si è convinta di poter decollare con la sola spinta della narrazione. Oggi l’intelligenza artificiale generativa non è in panne, ma in orbita instabile. Come l’astronauta Major Tom in Space Oddity di David Bowie: fluttua, elegante e seducente, ma scollegata dalla base operativa, cioè dalla realtà.

In queste settimane, tre headline hanno fatto da sveglia alla Silicon Valley, e a chi ancora sognava un’AI che scrive codice da sola, genera arte, risolve ogni inefficienza e nel tempo libero salva anche il mondo. Il problema è che mentre il sogno cresceva, i conti andavano in direzione opposta. E il valore percepito, come spesso accade nei deliri da bull market, ha fatto il salto quantico: da potenziale a miraggio.

OpenAI, o dell’antigravità finanziaria

Partiamo dalla regina indiscussa del teatrino: OpenAI. Una valuation stimata di 300 miliardi di dollari. Tracollo operativo: perdite di 5 miliardi nel 2024 e una previsione funesta di 14 miliardi nel 2026. In pratica, bruciano più di un miliardo al trimestre per inseguire il sogno dell’onniscienza algoritmica. E per condire il tutto, si comprano Windsurf – startup di AI per il coding – per 3 miliardi. La stessa cosa che, teoricamente, ChatGPT fa già da mesi. Se la tua piattaforma è così brava a scrivere codice, perché spendere miliardi per esternalizzarne la funzione? Semplice: non lo è.

E quindi si compra, si integra, si simula un’espansione. Si chiama “teatro del progresso”, ma è più vicino a un musical finanziario in stile Broadway, dove la musica è composta da VCs e i testi li scrive Sam Altman, vestito da Elon Musk dei poveri.

Perplexity, ovvero il fondo d’investimento travestito da startup

Secondo atto tragicomico: Perplexity AI. Valutata 18 miliardi con una revenue proiettata a 100 milioni per il 2025. Quindi 180x il fatturato. Se ci fosse un premio per la levitazione dei multipli, vincerebbero a mani basse. Ma la parte più surreale non è qui. È che Perplexity, mentre cerca ancora un business model che funzioni, ha deciso di lanciare un proprio fondo VC da 50 milioni. È come se una startup di delivery iniziasse a produrre scooter prima di capire come consegnare la pizza calda.

E la user experience? Peggiora. I risultati sono meno rilevanti, le interfacce più opache. Ma ehi, hanno un fondo. Magari ci investono in un’altra startup che a sua volta investe in Perplexity. Tautologia finanziaria elevata a sistema.

Hugging Face: da paladino open-source a logo da conferenza

Ultimo ma non meno spettacolare: Hugging Face. Valutazione di 4.5 miliardi, ricavi per 70 milioni e una strategia che sembra partorita in una convention di marketing: comprano una startup di robotica (Pollen Robotics) e organizzano eventi in stile TEDx con t-shirt brandizzate. Nella narrazione sono ancora gli eroi dell’open source, ma nella realtà sembrano un ibrido tra una boutique di PR e un’agenzia di influencer per modelli di linguaggio.

Lo shift è chiaro: si passa da codice a simbolo, da prodotto a posizionamento. L’open source diventa brand positioning. La sostanza evapora, resta la forma. E il capitale, finché dura.

Il pattern è chiaro: scale il perception layer

Il tratto comune di questi esempi è inquietante quanto evidente: valutazioni slegate dal profitto, esplorazioni fuori dal core business, burn rate fuori controllo, identità prodotto sempre più vaghe. Quando il momentum tecnologico rallenta, l’hyperactivity prende il sopravvento. Se non puoi scalare il prodotto, scala la percezione. È l’unico layer che risponde ancora agli stimoli di crescita.

E perché lo fanno? Perché temono la stagnazione. Perché un unicorno che non galoppa più diventa subito target di critica. Allora si produce rumore, si confondono le acque, si vendono narrazioni. L’importante è che nessuno guardi troppo a fondo.

Non è la fine dell’AI, è solo la fine dell’innocenza

No, l’AI generativa non è finita. Ma è finita la prima fase. Quella dell’ebbrezza, dei pitch urlati, dei prototipi che promettevano rivoluzioni e delle valuations costruite su metriche alternative. Entra in scena la fase 2: quella del realismo. Dove servono modelli di business solidi, integrazione nei processi reali, etica dell’uso e sostenibilità delle operazioni.

Il futuro dell’AI non sarà definito da prompt colorati, ma da sistemi che aumentano la produttività, potenziano la creatività umana e si integrano nell’economia reale senza sovrascriverla. In altre parole, l’automazione lascia il posto all’augmented intelligence.

Questa è una timestamp, non un necrologio. La parabola che stiamo osservando è ciclica. Ma chi non riesce a distinguere la fase “buzz” dalla fase “build” rischia di bruciarsi in volo, come Icaro. La nuova sfida è dimostrare, non solo raccontare.

Benvenuti nel dopo-hype. Qui non si vola più solo con la spinta dell’immaginario, ma con la forza della verifica.

Dopo l’hype: autopsia comparata dei modelli di business dell’AI generativa

La sbornia è passata. Le luci del palcoscenico si stanno abbassando. E ora che le slide da pitch tornano nel cassetto e le conference call non bastano più a tenere in piedi le valutazioni, i protagonisti dell’AI generativa si trovano davanti alla domanda più spietata dell’economia reale: come si fa business davvero?

Per capire chi sopravviverà e chi si dissolverà come una hallucination semantica, analizziamo i modelli di business post-hype delle tre aziende simbolo di questa era: OpenAI, Perplexity AI e Hugging Face.

OpenAI: l’incubatore travestito da utility

Il modello attuale è un ibrido schizofrenico. Da una parte c’è l’offerta SaaS pseudo-verticale, basata su ChatGPT e i modelli GPT-4/4o, che mira a monetizzare tramite abbonamenti (ChatGPT Plus) e API. Dall’altra, c’è l’alleanza osmotica con Microsoft, che ha il sapore di una dipendenza strategica. Microsoft paga per l’accesso esclusivo ai modelli, ma al tempo stesso controlla la distribuzione attraverso Copilot e Azure.

Il problema? Il margine è sottile come un wafer quantistico. L’infrastruttura costa. Tanto. Ogni query generativa è una mina sul conto economico. La logica è da land grab, ma senza il capitale illimitato delle Big Tech.

Ora OpenAI cerca di evolversi in un’infrastruttura “orizzontale” che abilita altri use case (vedi l’acquisizione di Windsurf), sperando di diventare l’Intel dell’era AI. Ma per ora assomiglia più a un incubatore in deficit che a una utility profittevole.

Perplexity AI: motore di ricerca o motore di capitale?

Perplexity ha tentato l’impossibile: reinventare la ricerca con un’interfaccia conversazionale, promettendo risultati sintetici e contestuali. Inizialmente brillante, oggi è già in fase di ossidazione. Gli utenti segnalano un peggioramento qualitativo, mentre l’azienda s’inventa un fondo VC per “investire nell’ecosistema”. Tradotto: non sappiamo come monetizzare, quindi finanziamo chi forse lo scoprirà prima di noi.

Il modello di business è ancora evanescente. Non ha pubblicità (per ora), non ha una subscription solida, e l’AI non è ancora sufficientemente sticky da diventare abitudine. Invece di scalare un modello esistente, Perplexity sta cercando di verticalizzare l’astrazione. Una manovra elegante nei pitch, suicida nei bilanci.

La scommessa? Diventare il prossimo Google. Il rischio? Essere ricordati come il Quibi della search generativa.

Hugging Face: il GitHub che voleva diventare WeWork

Hugging Face è nato come la cattedrale dell’open source AI. Repository pubblici, modelli scaricabili, community di sviluppatori entusiasti. Il modello di business iniziale era misto: servizi enterprise, hosting di modelli, e API per serving. La narrativa era: “siamo l’AI per tutti”. E funzionava.

Poi qualcosa è cambiato. L’identità si è diluita. Si investe in robotica, si organizzano eventi da brand lifestyle, si rincorre il posizionamento più che il prodotto. Nel frattempo, AWS e Google stanno assimilando l’open source AI a modo loro, con piattaforme sempre più integrate. Hugging Face rischia di diventare il MySpace del modello open, utile ma non necessario.

Il futuro? O riescono a diventare lo standard infrastrutturale per chi vuole self-hostare modelli AI (difficile), o si trasformeranno in una boutique per niche use case. Ottimo per una exit, meno per dominare.

Il punto cieco: nessuno ha un vero moaty

C’è un filo conduttore inquietante: nessuno dei tre ha ancora costruito un moat difendibile. L’AI generativa è un settore dove l’accesso al modello (LLM) è già commoditizzato, la differenziazione di UX è marginale, e il costo computazionale è enorme.

I veri vantaggi competitivi oggi sono tre:

  1. Distribuzione (chi ha il controllo dei canali: vedi Microsoft/Google)
  2. Dati proprietari (chi ha dataset non replicabili)
  3. Integrazione nativa nei workflow aziendali (chi è indispensabile e non nice to have)

OpenAI ci prova tramite Microsoft. Perplexity non li ha. Hugging Face rischia di essere un tool tra tanti.

E ora? L’era della brutalità selettiva

Ci stiamo avvicinando a una fase darwiniana dell’AI: i capitali facili stanno evaporando, le metriche farlocche non bastano più. Chi sopravvive? Chi sa:

  • monetizzare prima dell’adozione di massa
  • scalare senza bisogno di fundraising trimestrale
  • diventare infrastruttura o irrinunciabile

Il resto? Verrà acquistato per asset o dimenticato come il metaverso.

Il futuro non è la fine dell’AI, è la fine del capitalismo teatrale applicato all’AI.