Geneva crocevia tossico: tregua impossibile tra Cina e Stati Uniti sotto la lente di una guerra commerciale drogata

Ginevra, città neutrale per eccellenza, ha ospitato sabato uno dei capitoli più surreali e tossicamente teatrali della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Dietro i sorrisi diplomatici e le foto sul lago, la verità è cruda: un braccio di ferro tra due superpotenze in pieno scontro di nervi, mascherato da dialogo multilaterale. Le trattative si sono bruscamente interrotte nella serata, senza alcun annuncio ufficiale, per poi riprendere, si fa per dire, domenica. Tutto questo mentre i mercati globali trattengono il respiro e le aziende internazionali si domandano se stiano assistendo a negoziati o a un reality show geo-economico.

Scott Bessent, neosegretario del Tesoro americano, e He Lifeng, il tecnocrate supremo di Pechino in materia economica, si sono incontrati nella residenza del rappresentante svizzero all’ONU, in un’atmosfera da film di spionaggio più che da summit multilaterale. Il tempismo è cinico: da quando Trump è tornato alla Casa Bianca a gennaio, le tariffe americane sui prodotti cinesi hanno raggiunto il 145%, con picchi del 245% su settori strategici. La risposta di Pechino? Un muro tariffario del 125% su tutto ciò che puzza di “Made in USA”. E no, non si tratta di una danza diplomatica: è guerra di logoramento con tratti vendicativi.

Cina e Stati Uniti si fissano negli occhi come due pugili a fine round: stanchi, ma troppo orgogliosi per cedere. Pechino, come sempre, veste i panni del paladino del multilateralismo, sventolando editoriali del People’s Daily per ribadire che “la Cina è responsabile, paziente e risoluta”. Frasi da comunicato stampa che nascondono un messaggio ben più glaciale: non faremo concessioni unilaterali. Punto.

Nel frattempo Trump, tra un rally elettorale e l’altro, finge aperture: “potremmo abbassare le tariffe all’80%”. Una frase che sembra uscita da un mercante di tappeti più che da un leader globale. Il problema è che Pechino, con il suo pragmatismo leninista, ha imparato a ignorare le sparate americane come si ignora un cliente che entra al ristorante cinque minuti prima della chiusura.

Gli analisti più lucidi pochi, ormai parlano di “soft deal”, ovvero di una tregua temporanea simile alla sospensione di 90 giorni offerta nel 2018. Un bluff utile per fermare l’emorragia sui mercati, ma totalmente inutile per risolvere la radice del conflitto: il dominio tecnologico, la sovranità industriale e il controllo sui flussi globali. Nessuno dei due giganti vuole veramente cedere. Al massimo vogliono guadagnare tempo.

Il punto più grottesco? Né Pechino né Washington sanno veramente cosa vuole l’altro. Si negozia a vuoto, senza una road map, senza un’agenda condivisa, senza fiducia. Si naviga a vista mentre le economie rallentano e le catene di fornitura si spezzano come elastici logori. Secondo Dong Jinyue di BBVA, un’escalation porterebbe via almeno un punto di crescita al PIL cinese. Non è un dettaglio: è un colpo alla legittimità stessa del Partito Comunista, che vive di prosperità.

Il rischio reale è che, alla fine di questa commedia degli equivoci, ci si ritrovi con nulla in mano. Nessun accordo, nessuna dichiarazione congiunta, solo promesse evanescenti e nuove minacce tariffarie. I mercati? Pronti a scendere in picchiata. Le aziende? Ostaggio di una geopolitica diventata roulette russa.

Nel peggiore dei mondi possibili, c entrambi i Paesi lascerebbero il tavolo senza nemmeno un canale di comunicazione aperto. Un blackout diplomatico che trasformerebbe l’attuale impasse in una guerra fredda economica permanente.

Ma forse è proprio questo lo scenario preferito da certi strateghi americani: logorare la Cina fino al punto di rottura, aspettando il default interno. Dall’altro lato, Pechino mostra i muscoli, ma tiene d’occhio i mercati emergenti, preparando un piano B che suona tanto come “de-dollarizzazione” e “multipolarismo asiatico”.

Ginevra non è stata il palcoscenico della pace, ma solo la location lussuosa di una tregua apparente, dove la vera partita si gioca altrove: nella Silicon Valley, nella Belt and Road, nei microchip e nelle terre rare. Nulla è risolto, ma tutto è in gioco. E il prossimo round promette solo nuove scintille.