Se ti stavi ancora chiedendo se i robot umanoidi avessero un futuro fuori dai laboratori e dai video virali su Weibo, Huawei ha appena risposto con un sorriso sornione e un assegno. L’alleanza tra Huawei Technologies e UBTech Robotics, annunciata in quel laboratorio geopolitico chiamato Shenzhen, non è solo un comunicato con foto in posa davanti a un banner in PowerPoint. È la dichiarazione di un’egemonia industriale programmata, dove le macchine non solo eseguono, ma pensano con le gambe.
Parliamo di robot umanoidi, certo, ma non più intesi come costosi giocattoli per stand fieristici o mascotte per l’orgoglio nazionale made in China. L’accordo ha un obiettivo chiaro: trasformare questi esperimenti da laboratorio in manodopera intelligente da integrare in fabbriche, case e ovunque serva qualcuno che non sciopera, non dorme, e soprattutto non pretende una pensione.
Dietro la facciata da PR, il messaggio è inequivocabile: la AI incarnata — embodied intelligence, come la chiamano con classe — sta per diventare un asset industriale. Non stiamo parlando dell’ennesimo assistente vocale da cucina, ma di cervelli sintetici inseriti in corpi motorizzati, capaci di navigare spazi reali, interagire con ambienti complessi e imparare da essi. Tradotto in cinese pragmatico: operai sintetici con intelligenza contestuale.
UBTech, che non è nuova a partnership strategiche (basta chiedere a Midea Group e Easyhome), porterà la sua esperienza nello sviluppo di umanoidi bipedi e robot di servizio. Huawei, dal canto suo, fornirà la vera benzina: Ascend, Kunpeng, modelli AI proprietari e, soprattutto, cloud a prova di censura. Una combinazione che rende l’idea di “robot cinese” molto più interessante, e molto meno ingenua, di quello che immaginiamo in Occidente.
Il cuore di tutto sarà un centro per l’innovazione sull’intelligenza incarnata, una sorta di monastero zen cibernetico dove cervello e corpo elettronico troveranno la loro armonia algoritmica. Perché ormai l’AI senza corpo è solo mezza rivoluzione. E in Cina non si fanno rivoluzioni a metà.
Il contesto è già in ebollizione: il mercato domestico dei robot umanoidi è destinato a raddoppiare quest’anno, raggiungendo i 5,3 miliardi di yuan. Non è fantascienza, è scala produttiva: sei su undici produttori cinesi hanno annunciato che faranno almeno 1.000 umanoidi nel 2025. E se pensi che 1.000 siano pochi, prova a immaginarne 1.000 in una catena di montaggio, che lavorano 24 ore su 24, senza bisogno di caffè o sindacati.
Huawei ha già fatto la sua mossa qualche mese fa, entrando nel capitale di Spirit AI tramite la sua investment arm Hubble, a conferma che il gigante non sta solo vendendo chip, ma acquisendo cervelli. E questo dopo aver lanciato un centro globale per l’innovazione sull’intelligenza incarnata (che fa tanto “Club Bilderberg dei robot”), firmando patti con altri sedici attori del settore. L’obiettivo è chiaro: controllare la filiera, dal silicio al servo.
UBTech, dal canto suo, si è guadagnata il titolo di campione nazionale della robotica con una strategia semplice ma letale: produzione, partnership e PR aggressiva. Non si limita a costruire robot: li inserisce nel tessuto sociale e industriale con accordi chirurgici. I robot nelle fabbriche di Midea? Check. I robot nei salotti tramite Easyhome? Check. Ora, con Huawei, arrivano i muscoli computazionali.
C’è anche un effetto collaterale interessante: il mercato ci crede. Le azioni di UBTech, quotate a Hong Kong, sono salite del 10% in un solo giorno. E il resto dell’indice Hang Seng ha seguito, come se questa alleanza segnasse un punto di svolta. Magari non è tutta farina di robot, ma il tempismo non è casuale: proprio mentre si intravede una timida tregua nella guerra commerciale USA-Cina, Pechino piazza l’asso robotico sul tavolo delle supply chain.
L’Occidente osserva con sufficienza e un pizzico di panico. Mentre in Europa si litiga su regolamenti etici e si temono scenari alla “Terminator”, in Cina si firma l’accordo per sostituire — o meglio, superare — l’essere umano in produzione e servizio. Non per distruggerlo, attenzione: solo per renderlo obsoleto.
Una volta si diceva che “i robot ci ruberanno il lavoro”. Ora è più corretto dire che ce lo comprano, lo ottimizzano, lo sincronizzano con il cloud, e poi lo replicano in serie.
C’è qualcosa di inevitabile e insieme profondamente strategico in tutto questo. Huawei non sta solo entrando nel mercato della robotica: lo sta centralizzando, integrando l’intera catena del valore — chip, cloud, AI, corpo, applicazione — in un’unica infrastruttura. Mentre in Silicon Valley si gioca ancora a far parlare le AI, a Shenzhen le si fanno camminare, montare, avvitare, servire.
In un bar cinese gemellato con il bar dei daini, qualcuno potrebbe già dire: “non sarà il robot a prendere il tuo posto… sarà Huawei a venderlo a chi prenderà il tuo posto”.