Il mondo applaude, scommette, si sorprende: un Papa americano. E pure matematico. Ma ciò che davvero dovrebbe far tremare i polsi ai guru della Silicon Valley non è la bandiera a stelle e strisce issata sopra San Pietro. È la parola intelligenza artificiale, pronunciata con tono grave e impastato d’allerta nella sua prima omelia da regnante della Chiesa.
Pope Leo XIVal secolo Robert Prevost, nato a Chicago — ha detto chiaro e tondo che l’AI è una sfida etica, spirituale, e profondamente sociale. Una questione che va ben oltre le chiacchiere da keynote alla TED, o i comunicati stampa infiocchettati di Microsoft e OpenAI. Secondo lui, l’AI minaccia tre pilastri che la Chiesa da secoli cerca disperatamente di difendere: dignità umana, giustizia e lavoro.
E no, non si tratta di una boutade clericale. È un attacco diretto, ponderato, forse l’unico vero contrappeso globale a un’industria tecnologica che si comporta come una divinità autoeletta.
Dietro le vesti bianche, un matematico. Dietro le parole, un’agenda molto chiara.
La scelta del nome Leo XIV non è casuale, anzi. È un messaggio criptato nella tradizione, un richiamo al suo predecessore ideologico, Leo XIII, che nel 1891 pubblicò la famosa enciclica Rerum Novarum. Un testo che aprì gli occhi alla Chiesa sulla questione sociale dell’epoca: lo sfruttamento industriale. Oggi la fabbrica ha cambiato pelle, si è fatta algoritmo. L’operaio non è più sporco di fuliggine, ma umiliato da un chatbot.
Il nuovo Pontefice si posiziona quindi come antagonista morale della nuova rivoluzione industriale, quella digitale, quella automatizzata, quella che pretende di sostituire ogni cosa — persino Dio, se potesse. Perché l’AI, diciamolo, non è uno strumento. È una ideologia. Una fede che promette il paradiso senza passare dal purgatorio.
Ecco perché il Vaticano, sotto l’impulso già avviato da Papa Francesco, ha cominciato a flirtare col digitale. Non per abbracciarlo ciecamente, ma per dominarlo, per comprenderlo nei suoi codici, per scrutarlo e magari esorcizzarlo. Inutile far finta che il Vaticano sia un monastero medievale: sta digitalizzando l’Archivio Apostolico con l’AI, sfrutta l’intelligenza artificiale per connettere documenti inaccessibili, per analizzare secoli di dottrina, per mantenere viva in pixel la memoria della fede. Ma lo fa con una postura sorvegliata. Conoscere il nemico è il primo passo per redimerlo.
Nessun altro potere simbolico sul pianeta può reggere il confronto morale con Google o OpenAI. I governi balbettano, i mercati scommettono. Solo la Chiesa può ancora dire “questo è troppo” senza passare per luddista o ignorante. Quando il Papa dichiara che “nessuna macchina dovrebbe mai decidere della vita o della morte di un uomo”, non è una metafora. È una dichiarazione di guerra al militarismo algoritmico.
Lui, Robert Prevost, era praticamente assente dai radar dei bookmaker, che scommettevano sui soliti europei. Eppure eccolo lì, il primo Papa made in USA, che riceve i complimenti di Donald Trump (quasi una benedizione al contrario). Una figura imprevista, che arriva da un continente considerato marginale nella geopolitica vaticana, ma centrale nell’economia delle big tech. Un uomo di numeri, ora a capo del più antico potere spirituale dell’Occidente.
Se ti sembra ironico che proprio un matematico metta in guardia dall’intelligenza artificiale, ti sfugge il punto. È proprio perché conosce le formule, che ne teme il potere. E se pensi che la Chiesa sia irrilevante nel XXI secolo, osserva il panico in certi consigli di amministrazione ogni volta che il Vaticano emette un comunicato su temi etici. Il Rome Call for AI Ethics, firmato con IBM, Microsoft e altri colossi, è stato un momento spartiacque. Il fatto che la Santa Sede sia uno stakeholder nei tavoli sull’AI non è solo curioso: è sintomatico del vuoto lasciato da governi troppo indebitati o troppo stupidi per comprendere le implicazioni di una tecnologia senza freni.
La narrativa dominante vuole che l’intelligenza artificiale sia inevitabile, benefica, e persino moralmente superiore all’essere umano. Ma se l’AI è la nuova Bibbia, chi scrive i versetti? E soprattutto: chi li interpreta?
Il Papa non sta dicendo che dobbiamo distruggere le macchine. Sta dicendo che dobbiamo ricollocare l’umano al centro. Che nessun algoritmo deve dettare legge senza un confronto etico. Che dietro a ogni linea di codice deve esserci una coscienza — non solo una user policy.
Come direbbe un barista di Bar dei Daini “’sta AI va pure bene, ma chi je la dà ‘na bella confessione ogni tanto?”
Nel frattempo, l’industria continua a spingere. Generative AI per scrivere testi, deepfake che falsificano voci e volti, bot che manipolano discussioni su Reddit. E in tutto questo casino, l’unico a parlare di “simulacri” non è un CEO, è un Papa. È un segnale. È la prova che l’umanità, in fondo, ha ancora una coscienza collettiva. Anche se ha bisogno di qualcuno che la richiami dal pulpito.
Che la vera battaglia del futuro non sarà tra l’uomo e la macchina, ma tra l’etica e l’efficienza. Tra l’anima e il codice. E, paradossalmente, tra l’umano e ciò che finge di esserlo meglio di lui. Vuoi un consiglio? Quando l’unico a difendere la tua dignità è un signore vestito di bianco che crede nei miracoli, forse è ora di rimettere in discussione chi siano davvero i “razionali” del nostro tempo.