C’era una volta Google. Poi è arrivato Alphabet, un castello di sabbia costruito per tenere insieme motori di ricerca, sogni quantistici e pubblicità da miliardi. Adesso? Si comincia a scricchiolare sotto il peso della stessa creatura che avrebbe dovuto garantire l’immortalità: l’intelligenza artificiale. E quando perfino Wedbush – uno di quei nomi che sussurrano consigli agli orecchi di hedge fund e istituzionali – decide di toglierti dalla sua Best Ideas List, è il segnale che il mercato sente puzza di bruciato, anche se la grigliata è ancora accesa.

Da fuori tutto perfetto: bilanci in ordine, Google Cloud in ripresa, il core advertising che stampa denaro. Ma se si scava sotto il tappeto dell’entusiasmo AI, quello che emerge è una realtà meno scintillante. SGE – la Search Generative Experience di Google – è ancora in fase di test e già puzza di paradosso: vuoi rivoluzionare il search con risposte AI, ma la tua macchina da soldi vive dei click sugli ads nei risultati classici. Geniale come aprire un bar nel deserto e lamentarsi della sabbia nei bicchieri.

Wedbush non ha fatto una sceneggiata. Non ha declassato Alphabet, non ha gridato al crollo imminente. Ha fatto di peggio: l’ha tolta dalla lista dei titoli “a prova di bomba”. E quando un’istituzione di Wall Street compie un gesto così chirurgico, il messaggio è chiaro: Alphabet non è più una certezza, è una scommessa con troppi livelli di rischio non ancora prezzati. Come comprare un software enterprise con licenza perpetua nel 2025: un ossimoro costoso.

In un mondo in cui NVIDIA stampa utili a colpi di chip e Microsoft si prende l’intero ecosistema Copilot integrandolo ovunque (dallo shampoo all’Excel), Alphabet sembra ancora impantanata in un cortocircuito strategico: spingere sull’AI senza autodistruggere la search. Perché il vero problema è semplice, talmente semplice che fa male dirlo ad alta voce: se l’AI funziona troppo bene, il search muore. E se il search muore, muore AdWords. E se muore AdWords, muore Alphabet.

È come se Tesla avesse inventato una macchina a levitazione magnetica che non ha bisogno di batterie: geniale, ma mortale per il loro intero business model.

Satya Nadella intanto brinda, Sundar Pichai medita. OpenAI spinge, Google risponde con Gemini, ma è ancora tutto troppo teorico, troppo beta, troppo “ci stiamo lavorando”. Sembra quel vicino che da anni dice “sto ristrutturando casa” e intanto vive tra scatoloni e cavi volanti. Bello il rendering, ma il bagno non funziona.

E mentre il mercato applaude chi monetizza già ora – guarda caso Meta, che nel frattempo sforna AI, butta fuori occhiali, e mantiene in vita Instagram e WhatsApp come bancomat semi-automatici – Alphabet resta prigioniera di una contraddizione: l’AI la salva o la condanna?

Ironia vuole che proprio l’azienda che ha inventato Transformer, il cuore pulsante di tutta l’AI generativa moderna, si trovi ora a rincorrere i figli bastardi di quella stessa tecnologia. ChatGPT, Claude, LLaMA: tutti con il pedigree tracciabile fino a Google Research, ma nessuno sotto controllo. Come se avessero brevettato la ruota, ma adesso guidassero ancora un carretto a mano.

La tensione si sente. Anche tra gli analisti. E infatti Wedbush non è sola. Altri iniziano a usare il tono dubitativo, a smussare gli obiettivi di prezzo, a parlare di “execution risk” – il modo elegante di dire che forse non sanno bene che pesci pigliare.

E se torniamo a parlare di numeri, il succo è che Alphabet non è sottovalutata, è semplicemente troppo poco sexy per chi oggi vuole solo storie da storytelling lineare: “faccio AI, vendo AI, incasso da AI”. Qui invece siamo ancora in quella fase in cui si fa AI, ma la vendi poco, la monetizzi malissimo e rischi di cannibalizzarti nel processo. A Wall Street questo non fa impazzire. A Menlo Park sì, ma solo quando si parla di barbecue.

Tanto per capire l’umore da bar, settimana scorsa ho sentito un gestore dire: “Google? Boh, mi ricorda Nokia nel 2006: nessuno ci credeva potesse perdere, e poi…”. Nessuna analogia è perfetta, ma certe metafore scottano più dei fondamentali trimestrali.

La morale, per chi vuole vedere oltre la cortina fumogena dei modelli linguistici, è che Alphabet oggi è più una scommessa sul “riusciranno a reinventarsi?” che una certezza growth-oriented. E quando ti tolgono dalla Best Ideas List, è il modo più elegante per dire che il tuo posto nell’Olimpo è momentaneamente sospeso. Rientrerai? Forse sì, se Gemini si evolve, se il search AI non uccide l’advertising, se l’hardware AI non resta un hobby da laboratorio.

Ma intanto il mercato osserva. E quando il mercato osserva senza comprare, il tempo si fa lungo. E a Wall Street, il tempo è l’unica cosa che non puoi shortare.