Benvenuti nell’era dove l’intelligenza artificiale non solo crea, ma mente meglio degli umani. E non per arte, per soldi. Jamie Lee Curtis, attrice premio Oscar, si è trovata suo malgrado trasformata in testimonial fasulla di un prodotto sconosciuto, grazie a un deepfake costruito a partire da una sua vecchia intervista. Le hanno messo parole mai pronunciate in bocca, truccato l’espressione, e incollato un messaggio che non aveva mai approvato.

Un giorno sei l’icona del cinema horror, il giorno dopo l’avatar IA di una campagna pubblicitaria tarocca. E sì, stavolta Meta ci è cascata.

Jamie Lee Curtis ha fatto quello che fa un personaggio pubblico quando viene usato come carne da macello digitale: ha taggato direttamente Zuckerberg su Instagram. Niente PR, niente avvocati, niente comunicati stampa diplomatici. Solo un bel “It’s come to this @zuck” sparato in pubblico come un proiettile. L’effetto è stato immediato: il post è diventato virale, l’annuncio è stato cancellato nel giro di poche ore e la rete ha esultato con un sarcasmo collettivo degno di un film dei fratelli Coen.

“Shame has its value!” ha scritto Curtis. Una frase che, nel 2025, suona più come uno slogan di resistenza digitale che una lamentela hollywoodiana.

La questione di fondo è mostruosa e banale allo stesso tempo. Perché Meta, la fabbrica del metaverso e del feed tossico, ha ancora sistemi così porosi da lasciare pubblicare contenuti AI che replicano facce e voci di celebrità reali senza alcuna verifica preliminare? Non era questa l’azienda che prometteva “integrità dei contenuti”, “sicurezza degli utenti” e “AI responsabile”?

In realtà, siamo nel pieno della nuova bolla etica dell’IA generativa. E mentre Zuckerberg costruisce realtà virtuali dove nessuno vuole andare, le sue piattaforme permettono che persone reali vengano ricreate senza consenso, manipolate e messe in vetrina per monetizzare. Una distopia con interfaccia user-friendly e targeting demografico.

Jamie Lee Curtis non è la sola. Scarlett Johansson è finita in un altro deepfake—stavolta usata da un “artista” israeliano per rispondere a un’uscita antisemita di Kanye West. Il problema? Lo ha fatto senza chiedere a nessuno, nemmeno alle “versioni virtuali” delle persone coinvolte. Una specie di Avengers dell’attivismo digitale costruito con Photoshop, Midjourney e l’ego. Scarlett non l’ha presa bene: “Il potenziale moltiplicatore d’odio dell’IA è più pericoloso di qualunque hater in carne e ossa”.

Chiaro. Non è la tecnologia, è l’assenza di regole. E la differenza, come sempre, la fanno i poteri opachi.

Nel frattempo Google, in un lampo di lucidità, annuncia che inizierà a declassare nei risultati di ricerca i siti con deepfake segnalati. Bene. Ma siamo a maggio 2025. L’epidemia deepfake va avanti dal 2018, con escalation virali in ogni ciclo elettorale, guerra o scandalo. Come sempre, la moderazione arriva quando il danno è già diventato una metrica pubblicitaria.

Jamie Lee Curtis ha fatto il gesto giusto, ma il problema è strutturale. I deepfake non sono semplici “video falsi”. Sono attacchi semiotici alla realtà. Demoliscono la credibilità pubblica, frantumano l’identità personale e distruggono ogni possibilità di verifica contestuale. Quando un video sembra reale, ma è stato generato da un algoritmo, non è solo una bugia: è un virus epistemico.

E l’epidemia è già iniziata. Perché la vera tragedia è che funziona. Quei video vengono cliccati, condivisi, commentati. Monetizzati. Visti milioni di volte da utenti che non leggeranno mai la smentita, che non vedranno mai il post in cui Curtis dice “non ero io”, che assoceranno per sempre quella faccia a quel messaggio. Come si disinnesca un’informazione errata quando il tuo stesso volto la pronuncia?

Non ci sono ancora leggi reali per tutelare chi subisce questo abuso. Non c’è consenso, non c’è contratto, non c’è compenso. Ma c’è impatto, c’è confusione, e c’è una gigantesca zona grigia che l’industria dell’advertising digitale ha tutto l’interesse a mantenere.

Il punto centrale? Oggi, anche se sei Jamie Lee Curtis, devi combattere per avere il controllo sulla tua immagine digitale. Domani, toccherà a chiunque abbia una foto pubblica, un video, una live su Twitch. Il deepfake non è solo un problema delle celebrità: è il nuovo terreno della manipolazione identitaria. Un algoritmo ti clona, una piattaforma lo monetizza, e tu perdi pezzi di realtà a colpi di click.

Nel frattempo, Meta tace. Nessun comunicato, nessuna scusa ufficiale. L’ad è sparito, certo. Ma la traccia digitale, l’eco mediatica e la lezione etica rimangono.

Come disse una volta un barista della succursale del bar dei daini s Hollywood: “In questa città, o vendi un’idea o ti vendono la faccia. E a volte entrambe.”

Benvenuti nel capitalismo sintetico.