Intel Foundry. Suona bene, vero? Sembra qualcosa di epico, industriale, solido. Ma come direbbe il barista sotto casa mia: “bella l’insegna, peccato che dentro vendono fumo”. Perché il gigante di Santa Clara, quello che dominava i microprocessori come un dio greco ubriaco di silicio, oggi arranca come un pachiderma con le ginocchia rotte nel tentativo disperato di diventare il TSMC d’Occidente. E no, la keyword principale non è “successo”, ma committed volume, o meglio, la sua totale irrilevanza.

David Zinsner, il CFO con lo sguardo fisso e il lessico da medico legale, l’ha detto chiaro a Boston durante la J.P. Morgan Global Technology Conference: i volumi confermati da clienti esterni per la futura tecnologia produttiva di Intel sono “non significativi”. Tradotto dal gergo da conferenza: non ci sta credendo nessuno. E sì, a livello semantico siamo immersi fino al collo nelle parole chiave: foundry model, chip AI, 18A node… Tutte belle etichette per un contenuto reale che al momento fa acqua da tutte le parti.

Intel sta tentando un pivot titanico: passare da essere il produttore esclusivo dei propri chip a fabbricare su commessa anche per altri. Ma questa transizione, che doveva essere la grande mossa per restare rilevanti nell’era dell’AI, sta assumendo i contorni di una sindrome da ex monopolista confuso. Il cuore dell’operazione? Le nuove tecnologie di produzione a 18A e 14A, che sulla carta dovrebbero dare filo da torcere a TSMC e Samsung. Nella realtà? Siamo al livello dei test chip, e pure lì i clienti “cadono” fuori dal ciclo come mosche impazzite.

E non parliamo di aziende qualsiasi: Nvidia e Broadcom, due nomi che oggi pesano quanto interi PIL di paesi emergenti, stanno giocando a testare i wafer Intel. Ma il verbo chiave qui è proprio “testare”, che in questo mercato equivale a saggio gentile, non a matrimonio. E intanto i “volumi impegnati” quelli che servono per rendere sostenibile un modello foundry restano sotto il livello di guardia. O sotto zero, se vogliamo essere brutalmente sinceri.

La realtà è che per far quadrare i conti, secondo lo stesso Zinsner, il business foundry dovrà generare “qualche miliardo nei single-digit”, diciamo tra i 2 e i 5 miliardi l’anno. Peccato che dei 4.7 miliardi di ricavi dichiarati nel Q1, la maggior parte arrivi ancora da chip prodotti in house per i prodotti Intel stessi. Un po’ come dire che il panificio si vanta delle vendite, ma il 70% del pane se lo mangia la famiglia del fornaio.

Nel frattempo, Lip-Bu Tan, nuovo CEO con l’aria da samurai zen della silicon valley, ha scelto una via “minimalista”. Niente rivoluzioni. Snellimento, dismissioni mirate, tagli al grasso. Ha venduto parte della quota in Altera (una delle poche operazioni davvero logiche dell’ultimo decennio), ha appiattito la struttura organizzativa. Ma il nodo centrale resta: nessuno si sta strappando i capelli per usare i nodi 18A di Intel. Ed è un problema, perché nel foundry game non puoi semplicemente “essere bravo”: devi convincere i big a scommettere su di te.

E qui entra in gioco un problema che nemmeno gli ingegneri possono risolvere: la fiducia. Il mercato ha memoria lunga. Gli anni di ritardi, flop tecnologici, architetture confuse, CEO ballerini, e roadmap riscritte ogni sei mesi hanno lasciato ferite profonde. Intel oggi è come il vecchio rocker che prova a tornare sulla scena dopo anni di rehab, ma nessuno gli affida più un palco vero.

Il foundry model funziona solo se sei affidabile. TSMC ha costruito il suo impero non con i test chip, ma con execution brutale, tempistiche rispettate al millisecondo, ingegneria spietata e una cultura orientata al cliente. Intel, al contrario, ha ancora l’ego da sovrano assoluto del PC di fine anni ‘90. E questo cozza violentemente con il ruolo da servitore umile del design esterno richiesto dal modello foundry puro.

Il 2027 è la nuova data magica, quella in cui il business dovrebbe andare in pareggio. Ma come direbbe lo zio contabile che lavora in banca: “se devi aspettare due anni per pareggiare i conti, forse il modello è rotto”. La verità è che siamo nel mezzo di una ristrutturazione cosmica mascherata da rilancio strategico. E mentre Intel cerca di vendere sogni da foundry leader, il mercato guarda, valuta, e nella maggior parte dei casi… passa oltre.

Intanto, mentre tutti parlano di chip AI e acceleratori quantistici, la vera sfida è banale e feroce: fabbricare bene, consegnare in tempo, essere credibili. Tutto il resto – keynote, slide con roadmap colorate, citazioni ispirazionali – è rumore.

E come ha detto un mio collega CTO una sera davanti a una bottiglia di Cesanese di Affile cantine Bappo: “Intel vuole fare il TSMC americano. Peccato che gli manchi la parte taiwanese: l’umiltà operativa”.