Benvenuti nell’era in cui i Jedi non hanno più bisogno di spade laser, ma di GPU addestrate su tonnellate di video di gatti, texture di giraffe e recitazioni archiviate di Harrison Ford. Sì, la nuova frontiera del cinema non è più nello spazio, ma nella sintesi generativa: l’industria degli effetti visivi, guidata da mostri sacri come Industrial Light & Magic, si è buttata anima e motore neurale nell’abisso creativo dell’intelligenza artificiale.
Rob Bredow, Chief Creative Officer di ILM, ha deciso di mettere in scena lo stato dell’arte o forse dello “stato dell’ansia” in un TED Talk che ha fatto il giro del settore più velocemente del Millenium Falcon in hyperdrive. Il corto presentato, Star Wars: Field Guide, è un esperimento visivo che sembra uscito da un incubo lisergico in un pianeta popolato da lemuri-pinguini e polpi-zebra. Il tutto generato da AI, ovviamente.

La cosa interessante? Questo non è un prodotto finito, ma un mood board mobile, come lo ha definito lo stesso Bredow. Un patchwork animato che mostra le potenzialità e le aberrazioni di un uso non ancora maturo dell’intelligenza artificiale per la produzione cinematografica.
Ma dietro al linguaggio diplomatico della sperimentazione si cela la vera battaglia in corso nel settore. Gli artisti visivi stanno vivendo il déjà-vu del 1993, quando Jurassic Park li aveva convinti che sarebbero stati rimpiazzati da un T-Rex in CGI. Oggi il nemico non è più un dinosauro digitale, ma un algoritmo che mescola passato e presente per fabbricare futuri digitali.
Bredow stesso ammette: molti artisti si sentono sull’orlo dell’estinzione. Ma è un’estinzione che, paradossalmente, li ha sempre fatti evolvere.
Lo dimostra il caso Indiana Jones e il Quadrante del Destino. La famosa “de-aging scene” in cui Harrison Ford torna giovane come negli anni ’80 non è frutto solo di AI. ILM ha utilizzato un modello generativo personalizzato sulle sue vecchie performance, ma ha dovuto integrarlo con un modello CGI completo, rifinito da artisti umani. Perché? Perché l’AI, come ogni stagista geniale ma disordinato, ha talento ma zero senso del dettaglio.
Ecco il punto: l’AI è ottima per tirare fuori tutto, ma è pessima per controllare quel tutto. I tool attuali basati su prompt testuali e interfacce da ingegneri più che da registi sono come usare un coltello da cucina per scolpire il David. Funziona, ma serve un pazzo geniale a guidare la mano.
La provocazione di ILM è chiara: l’AI non è (ancora) regista, né artista. È un acceleratore, un moltiplicatore, un caos produttivo che va domato con mestiere, cultura visiva e, soprattutto, consenso. Bredow sottolinea: bisogna usarla con il pieno permesso del talento. Tradotto: no, non basta avere 200 ore di recitazione di Ford per ricrearlo. Serve il suo sì, e magari anche un contratto blindato da 70 pagine.
Nel frattempo, una parte di Hollywood alza i forconi. La produzione del film Heretic, distribuito da A24, si è sentita in dovere di specificare nei titoli di coda: “nessuna AI generativa è stata utilizzata nella realizzazione di questo film”. Una scelta che suona come la dichiarazione di purezza di una bottiglia di vino biodinamico. Sottintende: qui si è lavorato a mano, con sudore e pixel biologici.
Ma quanto dura questa resistenza umana?
Fuori dai salotti indie e dai red carpet, c’è la realtà: Kuaishou, colosso tech cinese, ha appena rilasciato Kling 2.0, un generatore video AI che ha già fatto spendere centinaia di dollari a creatori e filmmaker nel giro di ore. Chi l’ha provato giura che la qualità dei video è decuplicata in una notte. Movimento fluido, interpretazione coerente, esecuzione imbarazzante per Hollywood, che ancora dibatte se un attore sintetico abbia diritto a un trailer sul set.
È una corsa a chi fa prima, meglio, più economico. E intanto i modelli si allenano su ciò che trovano. Il problema dei diritti d’autore è una bomba innescata: OpenAI, Meta e altri big player sono già nei guai per aver “allenato” le loro AI su materiale protetto senza licenza. E se oggi generi un alieno partendo da un rospo e un ghepardo, domani potresti avere una performance fotorealistica di Hugh Grant… senza Hugh Grant.
Il copyright diventa liquido. L’identità pure. L’arte si fonde con la sintesi.
Eppure, non è la fine del cinema. È la sua mutazione.
Come direbbe un tecnico di post-produzione al bar dei daini dopo 12 ore di rendering: “La vera magia è quando non capisci più dove finisce l’umano e dove inizia l’algoritmo. E se lo capisci, è fatto male.”
La morale? L’AI non è il Sith né il Jedi. È la Forza stessa. Neutra, potente, pericolosa se usata male, meravigliosa se domata. Sta agli artisti decidere se usarla come un’arma o come una penna.
Intanto, ILM ha acceso i motori. E il futuro, tra un prompt e un fotogramma, ha già cominciato a girare.
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