C’è qualcosa di poetico nel fatto che una delle dorsali principali dell’Internet italiano passi sotto i tombini. No, non è una metafora per dire che siamo indietro. È fisicamente così. E a capo di questa danza di cavi, condotti e muffa urbana, c’è lui: Maurizio Goretti, CEO di NAMEX, il nodo internet romano dove passa buona parte del traffico digitale italiano.

In Italia la fibra ottica è una signora anziana che si trucca da giovane. Sorride, ma ha i polpacci stanchi. E mentre nel resto d’Europa si corre a 10 Gbps come se fosse normale, da noi si aprono i tombini, si guarda dentro, e si dice: “Eh, però c’è il backbone”. Eccolo lì, il backbone: il punto di interscambio neutrale dove operatori, OTT e fornitori di contenuti si scambiano dati come figurine Panini.

NAMEX, formalmente il Neutral Access Exchange, è uno di questi IX (Internet Exchange), un po’ meno sexy del suo cugino milanese MIX, ma con un’anima molto romana. Più traffico che infrastruttura, più cavi che visione strategica, più patch che architettura. Eppure, ci passa dentro Telecom Italia, WindTre, Fastweb, Cloudflare, Akamai, un bel pezzo di Internet che usi tutti i giorni.

Maurizio Goretti arriva dal mondo delle telecomunicazioni classiche. Quelle dove si parla ancora di “rame”, dove la fibra ottica è una conquista ma non una rivoluzione, e dove si chiamano ancora “carrier” quelli che non portano nulla se non ritardi. Il suo profilo LinkedIn sembra scritto da un algoritmo degli anni 2000. Nessuna promessa rivoluzionaria, solo l’essenzialità brutale del tecnico che gestisce il nodo, la sala, il data center. “Io ti faccio passare i pacchetti. Il resto sono chiacchiere da cloud.”

Il problema è che in questa sobrietà da ingegnere con il badge al collo, si nasconde un fatto che molti si rifiutano di vedere: NAMEX è centrale nel traffico digitale italiano, ma nessuno ne parla. In un Paese che parla di intelligenza artificiale come se fosse una pizza gourmet, si dimentica sistematicamente che l’AI ha fame di banda larga, di latenza bassissima, di interconnessione reale. E mentre in Francia si pianificano hub a latenza zero per le AI distribuite, noi litighiamo su chi deve scavare il marciapiede.

NAMEX è anche il cuore pulsante del “peering”, lo scambio diretto di traffico tra operatori, senza passare per costosi transiti. Una roba che negli Stati Uniti è diventata arma geopolitica, e da noi invece è “una cosa tecnica che capiscono in tre”. Tre che, ovviamente, decidono quanto costa e come si muove il flusso dati tra Netflix e casa tua. Goretti, con la sua discrezione quasi chirurgica, è uno di quei tre.

La verità è che il peering è potere. È il controllo della congestione, della priorità, del flusso vitale che tiene in piedi le nostre app, i nostri Zoom, le nostre crisi esistenziali digitali. E NAMEX, pur nella sua modestia architettonica, gestisce questo potere ogni giorno. Non con grandi proclami da Silicon Valley, ma con la metodica noia di chi sa che se sbaglia una patch in una rack room, metà Roma va offline.

Curiosità da bar dei daini: sapevi che in Italia alcuni dei cavi più importanti passano davvero nei tombini, a fianco delle condutture dell’acqua o del gas? Una tempesta estiva può creare interferenze. Un topo può far saltare TikTok. Ecco perché i tecnici girano con il tester come se fosse un crocifisso laico. E Goretti questo mondo lo conosce a memoria.

Il paradosso italiano è che deleghiamo la nostra presenza digitale globale a infrastrutture invisibili e a manager invisibili. Eppure Maurizio Goretti è lì, da vent’anni, a gestire il bilancino del traffico IP, senza mai finire in una copertina. Forse è meglio così, penserà lui. Meno hype, meno bullshit, più gigabit. Ma a forza di stare dietro le quinte, rischiamo di dimenticarci che Internet non è magico, è fisico, e ha bisogno di manutenzione.

Nel mondo dell’edge computing, del cloud distribuito, della cyber resilienza, NAMEX rappresenta ancora un modello un po’ analogico. Non per incompetenza, ma per mancanza di pressione politica e industriale. In un’Italia dove ogni mese si annuncia un nuovo “Piano Nazionale per la Transizione Digitale”, si continua a non investire nei veri snodi: i peering point, gli scambi autonomi, le dorsali locali. Goretti, da tecnico, non lo dice. Ma lo sa. E probabilmente, lo maledice ogni volta che sente la parola “innovazione” pronunciata da un sottosegretario con lo smartphone in mano e il backup su un disco esterno.

Serve una visione nuova del traffico dati, non solo una nuova fibra. E servono CEO che escano dai tombini e entrino nei boardroom a spiegare che senza un ecosistema IX moderno e performante, saremo sempre l’anello debole dell’Europa digitale. Goretti non ha questo ruolo. Ma lo potrebbe avere. Se solo qualcuno iniziasse ad ascoltare quelli che, sotto la città, fanno funzionare la modernità.

E tu, mentre scorri questo articolo sul tuo smartphone in 5G, magari a Termini, ricorda: probabilmente, stai passando sopra un tombino che porta il nome di Maurizio Goretti.