Nel giorno in cui Michele Zunino firma la lettera del Consorzio Italia Cloud indirizzata alla Presidente Meloni, il termometro digitale nazionale segna febbre alta. Non per surriscaldamento tecnologico quello l’abbiamo appaltato alle multinazionali ma per ipotermia istituzionale. Il documento è una denuncia sottile e impietosa: l’Italia si sta svendendo il controllo del proprio futuro digitale, pezzo per pezzo, server dopo server.
La keyword centrale è “cloud sovrano”, accompagnata da quelle minori, ma strategicamente connesse: sovranità digitale e indipendenza tecnologica. Parole chiave che in Francia, Germania e Spagna si traducono in miliardi di euro, mentre in Italia ancora inchiostro e burocrazia.
La Francia, giusto per entrare subito a gamba tesa nella questione, ha varato da tempo un piano ambizioso con supporto diretto a OVHcloud, compagnia nazionale che ha ricevuto fondi pubblici e commesse governative, nonché l’adesione al progetto europeo GAIA-X. Miliardi sono stati investiti, in forma di sussidi diretti, sgravi fiscali e accesso prioritario agli appalti pubblici, per costruire una struttura che possa rivaleggiare con AWS, Microsoft e Google.
Gaia-X, nato nel 2020 come ambizioso progetto europeo per garantire sovranità digitale e indipendenza dai colossi americani del cloud, si è trasformato in un pasticcio burocratico e inconcludente. Dopo aver ammesso nel consorzio gli stessi player (Amazon, Microsoft, Google) da cui doveva emanciparsi, ha perso credibilità e direzione strategica. I governi europei si sono divisi, le specifiche tecniche sono arrivate tardi, i risultati concreti quasi nulli.
Oggi Gaia-X è un’infrastruttura fantasma: né vivo né morto, incapace di offrire reali opportunità ai provider nazionali, soprattutto in Italia, dove si è rimasti spettatori passivi di un progetto partito male e gestito peggio.
In Germania, si è fatto anche di più. L’alleanza pubblico-privata si è trasformata in un progetto strategico nazionale, e aziende come Deutsche Telekom e SAP sono state mobilitate per creare una vera e propria infrastruttura cloud teutonica. Il governo ha destinato oltre 3 miliardi di euro entro il 2025 per garantire non solo resilienza tecnologica, ma un potere contrattuale sovrano sui dati tedeschi.
La Spagna, nonostante la minor potenza industriale, ha adottato una politica di protezionismo selettivo, con l’obbligo per i fornitori esteri di operare in partnership con soggetti locali e con vincoli territoriali stringenti sulla localizzazione dei dati. Non si tratta solo di regolamentazione, ma di finanziamenti diretti per i provider locali, con un occhio alla cybersecurity e uno all’occupazione.
Ora torniamo a noi, poveri italiani digitali. Qui si festeggiano gli investimenti di Microsoft a Milano o di Google nel Sud come se fosse il nuovo boom economico. Ma come scrive la lettera del Consorzio, sono solo miraggi da centro commerciale in zona franca. I data center delle multinazionali creano un pugno di posti di lavoro (quando va bene), non trasferiscono tecnologia, non lasciano competenze, non generano valore nazionale, e soprattutto non rispondono a Roma ma a Seattle.
Nel frattempo, decine di imprese italiane piccole, medie, resilienti, innovative sono abbandonate a loro stesse, come pionieri in una Silicon Valley al contrario: una dove invece di finanziamenti trovano ostacoli, invece di ecosistemi trovano deserti fiscali, invece di visione strategica trovano un governo che applaude chi viene a colonizzarli. La cosa ironica? Nel frattempo, ci riempiamo la bocca di parole come “sovranità” e “autonomia strategica”.
Il Consorzio Italia Cloud lancia un segnale d’allarme con un sottofondo molto chiaro: o si cambia rotta, o la nave affonda nel Pacifico dei GAFAM. E lo fa con una proposta implicita ma fortissima: creiamo un Cloud nazionale vero, supportato dal governo, con fondi pubblici, sgravi, accesso privilegiato alle commesse della PA, in pieno stile tedesco o francese.
Un dato spesso taciuto nei comunicati ufficiali è l’impatto occupazionale reale dei “grandi data center“: pressoché nullo. Una volta costruite, queste infrastrutture operano in modo altamente automatizzato, con un numero di addetti estremamente ridotto rispetto all’entità dell’investimento. Un campus cloud da miliardi di euro può richiedere la presenza costante di una manciata di tecnici. In termini concreti, è paradossalmente più probabile trovare opportunità occupazionali in una media impresa artigianale che non in un iper-strutturato impianto AWS.
La verità è che l’innovazione digitale oggi è geopolitica pura, e l’Italia sta giocando senza allenamento e senza schema, sperando che basti l’entusiasmo per pareggiare una partita che altri stanno vincendo con le borse piene di fondi pubblici.
Mentre a Berlino finanziano i loro cloud per non dipendere dagli USA, noi facciamo selfie con i manager di Redmond e festeggiamo. È come brindare con l’invasore mentre ti sfilano l’infrastruttura da sotto i piedi.
C’è ancora tempo per cambiare rotta, dice il Consorzio. Ma va fatto ora. Servono soldi, strategia, coraggio politico. Serve una vera visione industriale. O forse no. Forse ci meritiamo di pagare la fattura del cloud a fine mese… direttamente in dollari.