Hollywood. 3 giugno 2025. NeueHouse. Palco acceso, riflettori puntati, e il solito circo patinato di CEO, marketer e intrattenitori che recitano la parte dei visionari. Tema: “Il futuro dell’influenza”. Che, detto così, suona già come un epitaffio.

Evan Spiegel, Esi Eggleston Bracey, e i burattinai di Meta, Spotify e Coca-Cola sono pronti a dirci cosa sarà del creator economy, mentre l’intelligenza artificiale spinge fuori scena la carne e ossa con l’eleganza di un algoritmo ben addestrato. Biglietti VIP disponibili, ovviamente. Perché il capitalismo dell’attenzione ha sempre un listino prezzi.

Nel frattempo, il vero campo di battaglia non è su un palco di Los Angeles, ma nelle metriche di YouTube, che questa settimana ha sfoderato il suo arsenale per dimostrare che i Shorts quei video brevi che dovevano essere un “meh” monetario — sono diventati cash cow al pari dei video lunghi. Neal Mohan, CEO di YouTube, lo ha detto chiaro: in vari paesi, gli introiti per ora di visione dei Shorts hanno raggiunto quelli dei long-form. Tradotto: il contenuto snack vale quanto un pasto completo.

Un tempo il valore si misurava in contenuto. Ora basta il contenitore. Benvenuti nell’era in cui 15 secondi valgono milioni, purché abbiano il ritmo giusto e non facciano pensare troppo.

Il sospetto che tutto ciò fosse solo una gloriosa illusione da dashboard pubblicitaria è stato temporaneamente silenziato dal solito mantra: “miglioramenti al prodotto pubblicitario” e “crescita degli spettatori”. Detto da chi ha accesso agli algoritmi è come se un casellante autostradale dicesse che la gente viaggia di più perché lui fa bene il suo lavoro.

Ma non è finita qui. YouTube, in uno slancio da monopolista illuminato, si è ricordato che esiste anche l’audio. Podcast, per la precisione. E a Brandcast 2025, ha fatto sapere che oltre 1 miliardo di utenti al mese guarda podcast. Non ascolta. Guarda. Perché, si sa, anche l’introspezione oggi deve essere performata sotto una buona luce ring.

Per rafforzare il tutto, hanno riproposto il cavallo di battaglia della TV connessa: YouTube ormai domina gli schermi dei salotti americani. Gli utenti non vedono più il TG o Netflix. Guardano Shorts e podcast su TV da 65 pollici, col sottofondo del frigorifero smart. Dystopia deluxe.

Steve McLendon, responsabile del podcasting di YouTube, lo ha messo giù così: “Un podcast è uno show”. Il che è vero, ma anche profondamente deprimente. La differenza tra contenuto e contenitore è definitivamente morta. Il contenuto è uno specchio che ti guarda, purché monetizzabile.

Non manca la ciliegina: la classifica dei 100 podcast più visti su YouTube. Dominata, ovviamente, da Joe Rogan, che è ormai la CNN dell’uomo medio in cerca di verità non filtrate e battute da spogliatoio. Seguono “Kill Tony” e “Rotten Mango”. Una gerarchia che dire interessante è poco. YouTube ha promesso di estendere il ranking ad altri paesi, così tutti potranno sapere quanto è influente il rumore bianco della disinformazione leggera.

Intanto, l’ecosistema si muove. A una velocità da IPO.

Whalar Group, agenzia che gestisce creator come fossero asset finanziari, raccoglie capitali come se vendesse semiconduttori. Valutazione? 400 milioni di dollari. Ci scommetterei che tra cinque anni sarà la McKinsey dell’influencer marketing.

Hedra, invece, sta costruendo la Pixar del deepfake con AI: 32 milioni di dollari di finanziamento per generare video sintetici. Come dire, chi ha bisogno di un creator umano quando puoi avere una versione eterna, scalabile e zero sindacati?

Glass Imaging, con i suoi algoritmi per migliorare immagini, raccoglie 20 milioni. Perché oggi la verità visiva è solo un’opzione di filtro.

E poi c’è YouTube, che ormai si comporta come se fosse la NFL. Letteralmente. Nuovo accordo per trasmettere il Super Bowl Flag Football Game con creator e artisti. Streaming gratuito, mondiale, e presumibilmente ultra sponsorizzato. Intrattenimento per chi ha ormai dimenticato cosa significhi scegliere cosa guardare.

Roblox permette ai suoi creatori di vendere oggetti fisici insieme a quelli virtuali, grazie a Shopify. Mix di metaverso, e-commerce e nichilismo capitalistico. Nulla ha più senso, quindi tutto è vendibile.

E infine, Wix, che con “Wixel” lancia strumenti di AI design che dovrebbero semplificare la creazione di siti web. L’interfaccia del nulla, confezionata in CSS responsive.

Nel frattempo, TikTok continua la sua marcia tra censure, indagini UE e tentativi goffi di risultare inclusivo. Lancia l’AI per leggere il testo alternativo, invita i creator al Festival di Cannes per postare contenuti dietro le quinte, e prova a convincere le autorità che non sta vendendo pubblicità mascherata ai minorenni. Sarà.

Il paradosso è evidente: mentre tutti parlano di creator economy, i veri vincitori sono le piattaforme, non i creatori. I primi sono scalabili, replicabili, e protetti da brevetti. I secondi sono intercambiabili, sostituibili, e pronti a cedere l’anima per una manciata di CPM.

Forse è questo il futuro dell’influenza: un ecosistema perfettamente ingegnerizzato in cui l’unico “valore creativo” è la capacità di non disturbare l’algoritmo.

Un barista di Silver Lake, qualche sera fa, commentava così l’ultima ondata di creator AI-generated:
“Almeno questi non mi chiedono il link in bio per il loro NFT”.

Cinico? No. Visionario.