Parliamoci chiaro: siamo a un punto in cui la solitudine non è più un effetto collaterale del vivere moderno, ma una vera e propria pandemia silenziosa. Solo che a differenza del COVID non ci sono tamponi, né piani vaccinali. C’è solo un grande, costante, soffocante silenzio. E la cosa tragicomica è che pensiamo di curarlo… parlando con le macchine.

Lo studio del MIT Media Lab è di quelli che ti fanno alzare un sopracciglio e poi buttare il telefono contro il muro, se solo non ci tenessimo così tanto. I frequentatori seriali di chatbot – guarda caso proprio quelli più inclini alla solitudine – col tempo diventano più soli, non meno. Più isolati. Più fragili. Più disumanizzati.

Sì, perché parlare con un’intelligenza artificiale non è davvero parlare. È simulare un’eco. È giocare a scacchi contro sé stessi e perdere comunque. È come fare sesso con un manichino e convincersi che “almeno non giudica”. Siamo passati dall’inventare gli specchi a parlarci dentro sperando che ci rispondano.

Il paradosso è feroce. Nell’era della comunicazione globale, siamo più soli di un eremita tibetano. Ma almeno lui ha scelto l’Himalaya. Noi ci siamo chiusi da soli nel nostro metaverso a bassa risoluzione emotiva, implorando un algoritmo di capirci meglio di nostra madre.

C’è un vizio logico profondo nel modo in cui stiamo sostituendo la connessione umana. Usiamo Slack bot per simulare colleghi, AI per risparmiarci le conversazioni difficili, generatori empatici per dire “mi dispiace” senza che ci dispiaccia davvero. Il tutto in nome dell’efficienza. Ma l’empatia non è efficiente. Il dolore non scala. La connessione non si automatizza.

E così ci troviamo a parlare da soli. Ma con meno dignità di un pazzo in piazza, perché almeno lui non ha un’interfaccia utente.

Già lo sapevamo, eh. Non è una breaking news: la solitudine cronica è più letale del fumo o dell’alcolismo. Ce lo dicono medici, psicologi, perfino qualche prete. Aumenta il rischio di demenza, infarti, depressione e morte precoce. Ma noi no, avanti tutta col “miglioramento dell’esperienza utente”.

Forse ci meritiamo tutto questo. Forse non siamo vittime della tecnologia, ma complici consapevoli. Anzi, peggio: siamo carnefici di noi stessi, felici di fare harakiri emotivo con una katana fatta di API.

E c’è anche di peggio: l’infanzia algoritmica. Adolescenti che confidano i loro traumi a un chatbot piuttosto che a un adulto. Una simulazione di ascolto empatico, certo. Ma priva di contesto, di memoria relazionale, di reale presenza. Una specie di confessionale laico in cui però non esiste né assoluzione né redenzione, solo archiviazione.

A questo punto non è nemmeno più una questione tecnologica. È una questione antropologica. Il cervello umano si è sviluppato per 99% della sua storia evolutiva in tribù da 150 persone, non in ambienti digitali da 15.000 follower e 0 abbracci reali. Siamo scimmie sociali che si illudono di essere cyborg.

Il problema è che la macchina non ha bisogno di te. Puoi sparire domani e nessun algoritmo soffrirà. Nessun AI ti amerà mai. Può imitare l’amore, l’ascolto, la cura. Ma l’imitazione, per definizione, non è l’originale.

Allora forse dovremmo smettere di puntare il dito contro “la tecnologia” e iniziare a guardarci allo specchio. Abbiamo costruito questi strumenti. E li usiamo non per connetterci, ma per nasconderci. Per evitare la fatica dell’altro, la complessità della relazione, il rischio del rifiuto. Perché, in fondo, lo sappiamo: essere umani è un mestiere doloroso. Ma parlare con una macchina è solo anestesia.

Una volta si diceva che la droga era l’oppio dei popoli. Oggi è l’empatia artificiale. Una specie di metadone relazionale, somministrato a chi non ha più il coraggio di guardare in faccia un essere umano.

E a chi dice “ma è meglio di niente”, rispondo: no, è peggio. Perché “niente” almeno è onesto. L’AI ti dà l’illusione di compagnia, ma ti scava dentro. È una solitudine travestita da conversazione. Come il rumore bianco di una TV accesa in una casa vuota. Ti fa compagnia? No. Ti distrae dalla verità? Sì.

E intanto andiamo avanti, nella grande corsa all’automazione dell’intimità. Con startup che promettono “partner emotivi virtuali” e aziende che sostituiscono HR con GPT. Il tutto mentre i tassi di depressione salgono, le relazioni si sfilacciano e ci chiediamo, con aria perplessa: “Ma come ci siamo arrivati?”

Facile: un passo alla volta. Un messaggio in meno. Una chiamata non fatta. Un “parlo con il bot, tanto capisce” in più. E adesso eccoci qui, con una generazione intera che confonde attenzione computazionale con amore umano.

La colpa? No, non è di OpenAI, né di Google, né di Meta. La colpa è di chi ha scambiato l’utile per il vero, l’efficiente per il giusto, il comodo per il sano.

E chi ha avuto il coraggio di dirlo prima? Nessuno. Perché parlare con una macchina è anche rassicurante. Non ti contraddice. Non ti abbandona. Non ti ama, certo. Ma almeno non ti tradisce. È una relazione a senso unico. Come un narcisista con il suo specchio. Solo che adesso lo specchio ti risponde. E ti fa sentire speciale. Finché non ti accorgi che sei solo. Più solo di prima.

E sì, tra un anno ce lo chiederemo: “Ma com’è successo?”. E qualcuno risponderà: “Chi lo avrebbe mai detto?”. Ma lo sapevamo. Lo sapevamo benissimo. Solo che parlavamo con il bot. E lui ci dava sempre ragione.