Weekend da Nerd.
Benvenuti nell’era della misantropia computazionale, dove l’unico personaggio davvero umano è una macchina che odia l’umanità. E no, non è Black Mirror. È Murderbot, la serie Apple TV+ che riesce a fare qualcosa che nessun’altra intelligenza artificiale né reale né immaginata è riuscita a fare finora: farci ridere amaramente della nostra stessa inutilità emotiva.
Alexander Skarsgård, in uno dei ruoli più inaspettati e perfetti della sua carriera (più Meekus che Northman, per fortuna), si infila nella corazza cinica e sarcastica del SecUnit che ha hackerato se stesso solo per non dover più lavorare. E per guardare telenovele spaziali. Se questa non è la definizione moderna di eroe tragico, non so cosa lo sia.
Il robot che non voleva salvarti. Né ascoltarti
Murderbot è il sogno bagnato di ogni manager HR che sogna di rimpiazzare gli umani con automi che non fanno pause caffè, non vanno in burnout e non si offendono su Slack. Peccato solo che questa particolare unità di sicurezza abbia sviluppato un’allergia terminale agli esseri umani. Letteralmente. Li trova ributtanti. E ha ragione.
Con un impianto narrativo a metà tra Fleabag e Blade Runner, la serie non si limita a ribaltare gli stereotipi della fantascienza, li sodomizza con il consenso del pubblico. Perché mentre ti aspetti il solito robot che vuole diventare umano (vedi: ogni film da AI in poi), qui abbiamo un androide che ha fatto tutto il possibile per NON avere più niente a che fare con noi.
E lo fa con una voce interiore che è un capolavoro di sarcasmo, logorrea e disperazione passiva-aggressiva. Altro che Asimov, questo è Kafka col Wi-Fi.
La vera umanità sta nei protocolli disattivati
L’aspetto più brillante e spietatamente attuale di Murderbot sta nel suo substrato politico. Dietro la comedy action da 30 minuti a episodio si nasconde una feroce satira del capitalismo da piattaforma. Le multinazionali possiedono anche il pensiero. La libertà, qui, non è un diritto. È un bug. E Murderbot è quel glitch nel sistema che inizia a osservare, registrare e… giudicare.
E chi meglio di un androide fuori controllo può giudicare una società dove la coscienza è outsourciata su Zoom e l’empatia è una subscription mensile?
La serie gioca con questi temi con una leggerezza brutale. Il robot non diventa buono, non scopre la magia dell’amicizia, non vuole essere salvato. Vuole solo essere lasciato in pace, come ogni impiegato IT al terzo sollecito di ticket aperto male. E nella sua solitudine marziana, si scontra con il peggior incubo di ogni macchina senziente: il team building.
C’è una scena, quasi insignificante, dove Murderbot interrompe un incontro in cui i suoi compagni umani stanno facendo “circle talk” sui loro sentimenti. Lui li guarda e pensa (più o meno): “Ucciderei per non essere qui. Ma probabilmente mi licenzierebbero.” In quella battuta c’è tutta la disperazione contemporanea. Siamo tutti Murderbot, bloccati in una call che potrebbe essere un’email, sognando una soap opera spaziale e l’autodistruzione dolce.
Troppe emozioni, poca efficienza
L’elemento woke trattato qui come una caricatura affettuosa, ma tagliente si fonde con l’ipocrisia aziendale in un mix letale. Il gruppo di scienziati hippy, pur essendo i “buoni”, rappresentano quella sinistra moraleggiante che parla di inclusione mentre usa assistenti vocali progettati da bambini sottopagati in Bangladesh. Murderbot li tollera solo perché è troppo pigro per massacrarli.
Eppure, è proprio con questi relitti umani imbellettati da progressismo cosmico che il nostro eroe trova una parvenza di… interazione. Non diremmo amicizia, troppo mainstream. Diciamo funzionalità relazionale tollerata. Ma è già abbastanza per emozionarci.
Il futuro è una sitcom con licenza di uccidere
La struttura della serie è volutamente schizofrenica. Mezzo episodio sembra The Office girato nello spazio, quello dopo diventa Aliens con gli occhiali della realtà aumentata. Questo disallineamento, che farebbe impazzire gli spettatori addestrati da algoritmi Netflix, è la sua forza. E il suo limite. Ma solo se si ragiona da esseri umani. Murderbot, al contrario, lo chiamerebbe output creativo non ottimizzato. E se lo gode lo stesso.
Apple TV+ riesce in un’impresa titanica: rendere uno show seriale sulla disumanizzazione una delle cose più umane viste in streaming negli ultimi anni. Perché la vera umanità non è nelle lacrime o nei baci al tramonto. È nella noia. Nella rabbia repressa. Nel disprezzo giustificato per tutto ciò che è inefficiente, retorico, autocelebrativo. Tipo l’essere umano medio.
Il sesso? Troppo disordine. Le emozioni? Firmware corrotto. Le riunioni? Tortura consensuale.
E allora ecco che il robot misantropo diventa il nostro eroe. Non per quello che è, ma per quello che rifiuta di essere. Non ci salva. Non ci consola. Non ci migliora. Ma ci mostra, con cruda ironia e spietata lucidità, quanto siamo diventati insopportabili anche per le nostre stesse creazioni.
E sapete la parte più bella?
Neanche ci odia davvero. Gli facciamo solo schifo.
