Xiaomi, il brand che fino a ieri associavi a powerbank economici, telefoni che “sembrano un iPhone ma costano un terzo” e gadget da geek nostalgico, ora si sveglia e punta dritto al cuore del potere tecnologico globale: i semiconduttori. E non chip qualunque: stiamo parlando di un processore a 3 nanometri, progettato in casa, che dovrebbe diventare il più potente mai sviluppato in Cina per uno smartphone.

Non è solo un salto tecnico. È una dichiarazione di guerra commerciale, geopolitica, culturale. E come spesso accade in questi contesti, i numeri fanno da cornice, ma la vera partita si gioca tra linee di codice e litografia estrema.

Lei Jun, fondatore e CEO con l’ambizione tatuata sulla fronte (oltre che sulle magliette nere alla Steve Jobs, i completi stile Musk e ora la giacca di pelle à la Jensen Huang), ha annunciato su Weibo che Xiaomi ha già speso 13,5 miliardi di yuan nella R&S per lo sviluppo del suo chip “XRing O1”. Una parte di un piano decennale da 50 miliardi di yuan (circa 6,9 miliardi di dollari) che ha un solo obiettivo: conquistare l’indipendenza tecnologica, possibilmente dominando.

Ora, facciamo una pausa e traduciamo in cinese pragmatico quello che significa 3 nanometri: miniaturizzazione al limite delle leggi della fisica, un inferno ingegneristico che solo tre o quattro aziende al mondo riescono davvero a gestire (TSMC, Samsung, Intel… fine elenco). Che Xiaomi ci stia riuscendo in casa, senza dire chi gli sta fabbricando il chip, puzza un po’ di nebbia strategica. Non è difficile ipotizzare che dietro ci sia comunque una fonderia straniera, magari taiwanese o con una licenza indiretta. Ma tant’è: il marketing patriottico funziona, e il mercato ha applaudito, facendo salire le azioni del 2,65%.

Dietro i riflettori e le slide animate, però, si nasconde la cicatrice di un fallimento. Xiaomi ci aveva già provato con il chip Surge S1 nel 2017: un esercizio di stile senza spina dorsale, schiantato sul muro della realtà a causa di un baseband penoso. Chiunque lavori in telco sa che senza un baseband degno, il SoC vale meno di una cover glitterata per smartphone da discount. Ma Lei Jun, oggi 55enne, non è uno che dimentica: quella lezione gli è rimasta sotto pelle come un codice mal scritto.

Ecco perché oggi non si limita a replicare: rilancia. E lo fa in un contesto dove Huawei, con tutti i suoi divieti americani e la corsa ai chip avanzati in modalità “clandestina”, è già avanti. SMIC, il colosso del foundry cinese, ha investito nel 2024 ben 765 milioni di dollari. Xiaomi non sarà ancora lì, ma si avvicina. E soprattutto lo fa con un’immagine da “tech messiah” che serve a galvanizzare il Paese — e magari anche qualche ministro.

Cosa c’è in gioco? Non solo la supremazia degli smartphone. L’obiettivo è dominare l’intero ecosistema: dai dispositivi mobili all’auto elettrica, fino all’IoT e all’AI embedded. E guarda caso, nello stesso evento in cui Xiaomi lancerà il suo chip XRing O1, presenterà anche un SUV elettrico, lo YU7, e nuovi device. Ogni pezzo è una tessera dello stesso mosaico: diventare la Apple cinese, con un pizzico di Tesla e una spolverata di Nvidia.

In un mondo dove il software mangia tutto, ma è l’hardware a cucinare, il chip diventa l’anello mancante. Non averlo significa dipendere dagli altri. Averlo significa dettare le regole. E in questo scenario, Xiaomi non vuole più essere lo “sfigato con un bel design”. Vuole essere il padrone del silicio.

La strategia è chiara: investire, fallire, correggere, re-inventarsi. È il classico modello cinese della ripetizione sistematica fino al successo. Un metodo che nel tempo ha trasformato la copia in eccellenza e l’inseguimento in sorpasso. Non è detto che Xiaomi ce la faccia davvero a battere Apple o Samsung sul loro stesso terreno, ma ha deciso che la montagna va scalata, anche a mani nude. “Una vetta che va conquistata e una battaglia che va combattuta”, come ha scritto Lei Jun. Retorica? Forse. Ma intanto assume 2.500 ingegneri per farlo.

E mentre in Europa ci si domanda ancora se finanziare o meno un impianto Intel in Germania, in Cina un’azienda nata da un clone di Android si candida a diventare la paladina della sovranità tecnologica. Perché la guerra dei chip non è fatta solo di nanometri, ma di narrazioni, ambizioni e… fondamentalmente, soldi. Tanti soldi.

Da bar: in un mondo ideale, la gente si appassiona ai chip come fa con il calcio. In quello reale, chi capisce la differenza tra un nodo a 5nm e uno a 3nm ha già un vantaggio competitivo sul 99% degli investitori retail.

Benvenuti nell’era del chiptechno-nazionalismo, dove ogni transistor è un atto politico, ogni wafer un messaggio all’Occidente. E Xiaomi, da fabbricante di gadget, si trasforma in cavallo di Troia del nuovo sogno cinese: fare tutto in casa, meglio e più in fretta.