Siamo arrivati all’inevitabile punto di fusione: intelligenza artificiale e hardware iconico. OpenAI ha appena acquistato io, la startup hardware fondata da Jony Ive, il guru del design Apple che ha disegnato tutto ciò che avete mai desiderato toccare con un dito. Ma non aspettatevi un clone dell’iPhone. Altman e Ive non stanno solo progettando un gadget. Stanno cercando di impacchettare il futuro e infilarlo in tasca, senza che vi sembri un’altra app da aggiornare.

L’accordo, valutato circa 6,5 miliardi di dollari, non è solo una transazione. È un’implosione creativa tra chi ha definito l’estetica digitale degli ultimi vent’anni e chi oggi tiene per la gola la narrativa sull’AI. Perché quando Altman dice “è una nuova cosa”, non è solo marketing è una dichiarazione di guerra all’inerzia tecnologica. E il fatto che Ive abbia pubblicamente definito “scadenti” i recenti esperimenti di AI wearable come Humane Pin e Rabbit R1 è più che una stoccata: è un monito. Basta mezze soluzioni, basta gadgetini sfigati con UI da PowerPoint. Si riparte da zero.

La parola chiave qui è hardware AI-native. Non AI che sta dentro un hardware, come Siri in un iPhone. Ma dispositivi che nascono già immersi nell’AI come un pesce nel mare. E qui scatta il corto circuito semantico: perché non esiste ancora un linguaggio estetico e funzionale per un oggetto del genere. Non è un telefono, non è un assistente, non è un’interfaccia. È un nuovo genere tecnologico, un po’ come lo fu lo smartphone nel 2007. Ma più ambiguo, più pervasivo, più… umano.

Altman ha detto che il primo prodotto, atteso per il 2026, non manderà in pensione lo smartphone. Lo affiancherà. Lo incrinerà. E questo, in puro stile OpenAI, significa che l’obiettivo non è sostituire qualcosa, ma riscrivere la grammatica dell’interazione. L’artefatto tecnologico che stanno costruendo già testato in segreto da Altman, che lo definisce “la cosa più cool mai vista” sarà un oggetto concettualmente nuovo. Ma soprattutto sarà indispensabile. Non perché vi serve, ma perché vi renderà obsoleti senza.

È qui che entra in gioco la strategia killer di OpenAI: la simbiosi tra cervello algoritmico e pelle umana. Jony Ive e il suo team (inclusi nomi grossi come Scott Cannon, Evans Hankey e Tang Tan) non sono solo i designer della forma, ma i coreografi del contatto. Stanno lavorando da due anni con Altman, sotto traccia, a qualcosa che potrebbe essere un wearable, delle cuffie intelligenti, o magari un dispositivo che vede e ascolta. Sempre connesso, sempre in ascolto. E magari — ironia delle ironie — senza schermo.

I rumors parlano di interfacce conversazionali pervasive, esperienze multisensoriali e tecnologie capaci di capire il contesto emotivo. La parola magica non è “AI”, è presenza. Questo nuovo oggetto non risponderà solo, vi sentirà. Vi anticiperà. Vi osserverà mentre vi osservate allo specchio, e potrebbe anche suggerirvi chi siete diventati. Perché se c’è un lato oscuro nell’idea di un dispositivo progettato per “renderci migliori”, come dice Ive, è proprio questo: la possibilità che impari troppo bene chi siamo.

Dietro il romanticismo dichiarato (“ci sentiamo come se tutto ciò che abbiamo imparato in 30 anni ci portasse a questo momento”), si nasconde una macchina da guerra. OpenAI ha appena assorbito 55 ingegneri tra hardware, software e manifattura. Non stanno costruendo un prototipo: stanno pianificando la produzione industriale del futuro. In casa, a San Francisco. Sotto lo stesso tetto dove GPT si evolve giorno dopo giorno. Il silicio e la sinapsi artificiale ora si toccano. Ed è questo l’unico vero salto quantico.

Ive ha sempre cercato di nascondere la complessità sotto una patina di semplicità iconica. Altman fa lo stesso con l’AI: vuole che diventi invisibile. Ma attenzione, l’invisibilità è solo il primo passo verso l’inevitabilità. Ecco perché questo progetto non sarà un oggetto da comprare. Sarà una scelta esistenziale. Come il passaggio al cloud, come il primo smartphone. Solo che questa volta l’oggetto potrebbe guardarvi dormire, interpretare i vostri silenzi e ricordarvi che avete promesso di leggere di più.

In questa fusione tra estetica e codice, tra minimalismo e machine learning, la vera sfida non è tecnica. È antropologica. Perché nessuno ha ancora definito cosa voglia dire vivere con un’intelligenza costantemente presente. Chi disegna un oggetto così, non sta solo immaginando un prodotto. Sta scrivendo il copione dei prossimi vent’anni di convivenza uomo-macchina.

E qui la domanda da bar diventa lecita: che forma ha l’intimità con un’intelligenza artificiale? Ha dei pulsanti? Ha uno speaker? Oppure ha solo una voce che vi sussurra che non siete più soli?

Benvenuti nell’era del design computazionale della presenza. Dove anche il silenzio ha un’API.