Sergey Brin, cofondatore di Google e una delle menti più elusive della Silicon Valley, ha fatto un’irruzione improvvisa durante il fireside chat di Demis Hassabis, CEO di Google DeepMind, all’I/O 2025. Niente annunci ufficiali, nessuna slide: solo Brin, un microfono e quella consueta nonchalance da miliardario che non ha più nulla da dimostrare.
Quando il moderatore Alex Kantrowitz gli ha chiesto come trascorresse le giornate, Brin ha risposto con la sua tipica miscela di sarcasmo e understatement:
“Credo di torturare persone come Demis, che tra l’altro è fantastico.”
Poi, quasi come parlasse del suo hobby domenicale, ha aggiunto:
“Ci sono persone che lavorano sui modelli di testo Gemini, sul pretraining e sul post-training. Per lo più quelli. Ogni tanto mi immergo nel lavoro multimodale.”
Un modo molto Brin-style per dire: “Sto supervisionando le fondamenta dell’AI generativa destinata a riscrivere l’intero tessuto dell’economia globale.”
Questa apparizione improvvisata ha il peso di una dichiarazione strategica. Dietro l’ironia e l’apparente leggerezza si nasconde una verità scomoda: l’AI non è più confinata ai laboratori, ma è diventata terreno di potere, ego e visione. E Brin, con la sua battuta da bar di lusso, ci ha appena ricordato chi detiene ancora le redini.
Sergey Brin non è mai stato un pensionato, e forse non lo sarà mai. Anche se a volte sembra.
“Chiunque sia un informatico non dovrebbe essere in pensione adesso.” Lo dice con il tono di un profeta mancato, ma dentro c’è un monito chiaro: se sei fuori dalla rivoluzione AI, non sei solo vecchio. Sei irrilevante.
La frase è passata sotto traccia, ma ha la potenza di un keynote. È il manifesto implicito dell’era Gemini, dei modelli testuali, dei pretraining e post-training, delle architetture multimodali su cui Alphabet sta bruciando miliardi e neuroni. Non è solo una battuta da nerd con nostalgia di shell prompt. È un segnale che la seconda ondata AI non è per startupper con slide su Canva. È roba seria, da scienziati veri, da Brin.
Chi pensava che Sergey si stesse godendo la vita da magnate tra yacht a idrogeno e meditazioni ayurvediche in Nepal, si sbaglia di grosso. Quando Alex Kantrowitz gli chiede cosa faccia tutto il giorno, risponde con una risata e una verità scomoda: “Credo di torturare persone come Demis.” Traduco: smonto i loro modelli come se fossero Lego, li stresso su architetture e dataset, li porto sull’orlo del delirio computazionale.
E la gente lo lascia fare. Perché Sergey Brin, pur non essendo più CEO, è una specie di grande inquisitore dell’AI di Google. Ha tempo, soldi, accesso illimitato ai team e, soprattutto, zero pazienza per il marketing. Si diverte a infilarsi nei team Gemini, quelli che lavorano ai modelli di base, agli strati fondamentali della nuova AI. Non fa presentazioni, non cerca quote di mercato. Spinge, testa, destruttura. Di tanto in tanto, dice, “mi butto anche un po’ nel lavoro multimodale.” Sottinteso: dove c’è il fuoco vero, ci sono anch’io.
Gemini, il supermodello LLM di Google, non è quindi solo figlio di Hassabis, Kurzweil e delle GPU di NVIDIA. È anche il parco giochi intellettuale di Brin. Lui si aggira tra pretraining e post-training come un alchimista con la nausea per le demo. Non cerca il prossimo ChatGPT da incartare per il mercato consumer. Vuole qualcosa di più vicino alla Scienza, quella con la S maiuscola e la caffeina sempre a portata di mano.
Il fatto che uno come lui si senta ancora in dovere di mettere le mani nel codice ci dice almeno tre cose. Primo: la guerra dei modelli è solo all’inizio, e chi ha esperienza non può permettersi il lusso di delegare tutto ai venticinquenni di Stanford. Secondo: l’AI è ancora una materia viva, non industrializzata, e richiede cervelli non ancora ottimizzati per la carriera da VP. Terzo: Google, sotto la patina di comunicazione rassicurante, sta preparando qualcosa di molto più grosso di quello che racconta.
E se Brin tortura Hassabis, è perché Hassabis lo tollera. O forse lo teme. Perché in un mondo di LLM che parlano, scrivono, generano, rispondono e persino piangono (simulando), l’unica cosa che un umano come Brin può ancora fare meglio è l’interrogazione epistemologica della macchina. Una cosa da filosofi… o da hacker di prima generazione.
Nel frattempo, chi osserva da fuori pensa ancora che i fondatori siano “consiglieri di lusso”, pensionati con badge onorari. Non capiscono che in ambienti come Mountain View o Palo Alto, i veri poteri non si misurano a organigramma, ma a commit nel codice e domande scomode alle 3 di notte. Brin è tornato. O forse non se n’è mai andato. È semplicemente passato dall’essere CEO al ruolo molto più temuto di ghost-engineer.
Nel bar dell’AI, dove tutti parlano di etica, bias e modelli open source, lui entra, ordina un espresso, ascolta in silenzio… poi chiede: “Sì, ma quanti parametri ha davvero il tuo modello multimodale?”
E lì cade il gelo.