La schizofrenia narrativa di Google ha raggiunto vette degne di un thriller legale. In aula, davanti al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il colosso di Mountain View piange miseria, sostenendo di essere assediato da concorrenti agguerriti come OpenAI e da una nuova generazione di motori di ricerca spinti dall’intelligenza artificiale. Ma, quando si tratta di vendere pubblicità – cioè fare veri soldi – la melodia cambia: improvvisamente Google diventa una potenza inarrestabile, un canale obbligato per chiunque voglia raggiungere un consumatore connesso.
Il problema è che entrambi i racconti non possono essere veri contemporaneamente, a meno che non si accetti l’idea che Big Tech viva in una realtà quantistica, dove può essere monopolista e vittima nello stesso istante, a seconda dell’osservatore.

Philipp Schindler, chief business officer di Google, non ha avuto timori nel vantarsi di fronte a una platea di pubblicitari: “L’83% delle persone usa Google o YouTube ogni giorno”. Una metrica che, in un altro contesto, suonerebbe come la prova regina della posizione dominante. Non un indizio, ma un manifesto. Ma si sa, quando parli agli inserzionisti, vendere è più importante che sembrare coerente.
Nel frattempo, in tribunale, Google si arrampica sugli specchi per evitare una sentenza che potrebbe distruggere il suo impero sulla ricerca online. Il giudice, già lo scorso autunno, ha stabilito che Google detiene un monopolio illegale sui motori di ricerca. Le proposte del governo sono pesanti: fine degli accordi di distribuzione esclusiva, condivisione forzata dei dati con i concorrenti, e addirittura la cessione di Chrome. Una bomba nucleare sul core business di Google. Altro che “leggero vento di concorrenza”.
Il dramma si consuma su due palcoscenici che non dovrebbero mai intersecarsi, ma che invece si fondono in un paradosso inquietante. Davanti al giudice, Google vuole sembrare fragile, vulnerabile, in un mercato in cui ChatGPT sta divorando fette di attenzione e Bing – poverino – ci prova con l’AI come può. Davanti agli investitori e agli advertiser, invece, Google è il sole attorno a cui ruotano tutti gli altri pianeti digitali.
Il bello (e il cinico) è che entrambe le narrazioni funzionano, perché il pubblico cambia. E ogni pubblico ha il suo set di metriche, i suoi bias, la sua fame di rassicurazione. Ai giudici si portano PowerPoint con frecce rosse verso il basso e slide su “declining market share”. Agli inserzionisti si mostra il grafico in ascesa, gli utenti “coinvolti”, i minuti di permanenza, il CTR a due cifre.
La parola chiave qui è monopolio, e le parole secondarie sono antitrust e pubblicità digitale. Perché tutto ruota lì: Google ha costruito il proprio dominio non solo sulla superiorità tecnologica, ma su una rete tentacolare di integrazioni verticali. Possiede il motore di ricerca, il browser, il sistema operativo, la piattaforma pubblicitaria e i contenuti (YouTube). È come se un’unica azienda avesse il monopolio su autostrade, automobili, distributori di benzina e insegne pubblicitarie ai bordi della strada. E poi si lamentasse perché qualcuno ha inventato la bicicletta elettrica.
Chiunque abbia mai gestito campagne advertising su Google Ads lo sa: puoi anche voler esplorare alternative, ma se vuoi raggiungere davvero il tuo target, non puoi ignorare Google. Semplicemente, è lì dove si trovano le persone. È lì che il consumatore interroga il mondo. Non c’è discussione SEO o strategia performance che possa aggirare questo nodo.
Ora, la domanda non è se Google sia dominante. I dati presentati dallo stesso Schindler lo confermano senza ombra di dubbio. La domanda è se l’AI potrà realmente scardinare questo sistema. La verità è che, finché Google detiene la distribuzione (grazie a Chrome, Android e agli accordi predefiniti con Apple e altri produttori), nessuna innovazione potrà superare il muro dell’abitudine e del posizionamento nativo.
Ironico, vero? La compagnia che ha democratizzato l’accesso all’informazione, ora si aggrappa con tutte le sue forze a una struttura chiusa, da monopolista ottocentesco. Una specie di Standard Oil digitale. Con la differenza che, quando Rockefeller venne smembrato, non poteva lamentarsi di Bing o dell’AI generativa.
La macchina pubblicitaria di Google – che nel 2024 continuerà a drenare la maggior parte del budget globale del digital advertising – è troppo redditizia per essere smontata senza resistenze furiose. Ma le sue stesse affermazioni pubblicitarie rischiano di diventare l’arma del proprio processo. Una doppia verità che, a lungo andare, potrebbe implodere.
Come diceva un vecchio copywriter da bar: “Se devi mentire, almeno non farlo davanti a due pubblici diversi nella stessa settimana”.