La censura digitale non passa più dalle bacheche dei social. Passa dai laboratori. Sì, quelli che certificano se il tuo prossimo smartphone non emette più radiazioni del consentito o se il baby monitor Wi-Fi non si trasforma in una porta d’accesso per hacker di Stato.
La Federal Communications Commission (FCC), in una mossa che sa di decoupling tecnologico al napalm, ha votato all’unanimità per squalificare i laboratori cinesi dal processo di autorizzazione dei dispositivi elettronici destinati al mercato statunitense. Tradotto: niente più bollini di conformità firmati da Pechino per cellulari, telecamere di sorveglianza, router e compagnia connessa.
In una nazione dove il 75% degli apparecchi elettronici viene testato in Cina, la decisione suona come una bomba geopolitica con timer a lunga gittata. Perché non si tratta solo di Huawei, ZTE o di altri noti volti dell’apparato tecnologico cinese già finiti sulla blacklist americana. No. Qui si parla di neutralizzare l’intero sistema di garanzia tecnica, quello che decide se un device può varcare la frontiera USA o finire bloccato in dogana come una minaccia 5G ambulante.
L’argomento della FCC è chiaro, brutale e intriso di realpolitik: i laboratori cinesi sono troppo vicini al Partito Comunista Cinese, alle imprese statali e peggio ancora all’apparato militare. Questi centri, che avrebbero certificato “migliaia di dispositivi” negli ultimi anni, secondo il presidente della FCC Brendan Carr rappresentano una “porta d’ingresso” nella rete infrastrutturale americana.
Insomma, l’ipotesi è che tra uno stress test e l’altro, qualche backdoor ci possa scappare. E non è nemmeno una teoria cospirativa. È cyber-sovranità applicata con l’artiglieria normativa.
Già nel 2022 gli USA avevano bandito nuove approvazioni di apparati telecom prodotti da Huawei, ZTE, Hikvision, Dahua e altri grandi nomi dell’elettronica made in PRC. Ma ora si va oltre: si bloccano gli intermediari. I laboratori. Quelli che dovrebbero essere imparziali, ma che secondo Washington ballano troppo spesso al ritmo del tamburo di Zhongnanhai.
E la mossa non è isolata. In parallelo, la FCC chiede ai soggetti con legami significativi con “foreign adversaries” — leggi: Cina, Russia, Iran e compagnia bella — di dichiarare apertamente tutte le licenze e autorizzazioni ottenute negli Stati Uniti. La trasparenza, come arma di guerra ibrida.
Il quadro strategico è lampante: non si combatte più solo sull’hardware, ma sulla filiera di fiducia. Il chip è nulla senza la firma che lo rende legale. E se quella firma arriva da un’entità sospetta, il gioco è fatto. Cancellata. Nulla. Bloccata. E così un sensore, una scheda radio, una fotocamera, diventano potenzialmente armi digitali non convenzionali.
Dal punto di vista tecnologico, questo porta alla luce una questione spesso ignorata nei dibattiti da convegno: la supply chain dell’affidabilità non è meno critica della supply chain dei materiali. In un’era di dispositivi interconnessi, chi firma la conformità ha un potere immenso. Più del programmatore. Più del progettista. È il notaio del silicio.
Ma non c’è solo paranoia dietro questa crociata. C’è una strategia a lungo termine. La FCC non vuole solo espellere laboratori compromessi, vuole costruire un sistema autarchico di certificazione, gestito da entità statunitensi o da alleati fidati. Si parla già di espandere il bando a tutti i laboratori situati in Cina, a prescindere dal soggetto che li controlla.
E se l’Europa sta ancora discutendo se la GDPR valga anche per ChatGPT, negli USA stanno blindando ogni anello della catena tecnologica. In silenzio, ma con impatto sistemico.
C’è qualcosa di vagamente ironico in tutto questo. Per anni abbiamo vissuto nel dogma della globalizzazione, dove la qualità era certificata da standard transnazionali e laboratori in outsourcing. Ora scopriamo che l’etichetta “tested in China” potrebbe essere l’anello debole della sicurezza nazionale.
E ancora una volta, nel silenzio assordante della diplomazia internazionale, l’America non chiede permesso. Taglia. E lascia che sia il mercato, o i tribunali, a seguire.
Se cercavi un esempio pratico di tecnonazionalismo operativo, eccolo servito. Ma non aspettarti che finisca qui. Quando la guerra è nei firmware e nei certificati, ogni QR code è un campo minato.