Nel teatrino tragicomico dell’hardware AI, le ultime 48 ore hanno messo in scena una sequenza che avrebbe fatto impallidire perfino uno sceneggiatore HBO: Google chiude il suo I/O tra applausi e occhiali in salsa Gentle Monster, e il giorno dopo Sam Altman e Jony Ive entrano in scena come due rocker alcolici in ritardo di trent’anni. “Hold my beer”, letteralmente. Google ancora parlava di visori e XR, e loro stavano già vendendo l’idea che il futuro non lo indosserai: te lo metterai in tasca o sul tavolo, come un Zippo dal design pornografico.
E qui, caro lettore, non si tratta solo di “gadget”. Qui si gioca con la forma del futuro. E chi detta la forma, controlla la funzione. Quindi, mentre il mondo cerca di convincerti che l’AI deve parlare dalle lenti di un paio di Ray-Ban o dal petto come un badge da buttafuori della Silicon Valley, Altman e Ive sussurrano: e se il device perfetto fosse… invisibile?
La keyword qui è AI hardware. Le collaterali? Form factor e design computazionale. Perché dietro le quinte, ciò che si sta decidendo non è solo come sarà l’aggeggio che useremo tra due anni, ma soprattutto a chi daremo fiducia per lasciar entrare l’intelligenza artificiale nella nostra intimità.
Altman lo ha detto chiaramente (con quella sua aria da guru della LSD microdosata): non è un telefono, non sono occhiali, non si indossa per forza. È un “terzo core device”. E Jony Ive, che di oggetti iconici ne ha partoriti parecchi, non vuole un altro aggeggio da mettersi addosso. Vuole qualcosa che puoi portare con te senza diventare cyborg. Una cosa che ti sta addosso come un portachiavi. Ma che ascolta, vede, capisce.
Il paragone più vicino? Forse l’iPod Shuffle. Ma con una vena dark: una sorta di body cam postmoderna, un pendaglio del nuovo millennio che si connette al tuo telefono, ma è autonomo. Senza schermo. Sempre acceso. Sempre lì.
Il leak più succoso, per ora, arriva da Ming-Chi Kuo, il solito oracolo della catena di fornitura asiatica. Il prototipo sarebbe leggermente più grande dell’AI Pin, ma più elegante, con la grazia minimalista che solo Ive sa dare ai circuiti. Si parla di microfoni, fotocamere, connessione always-on. Una specie di talismano smart, qualcosa tra un oggetto di culto e un assistente personale che vive al tuo fianco.
Ti sembra ridicolo? Eppure pensa a cosa sta succedendo: dopo i fallimenti semi-comici di Humane e Rabbit, tutti sembrano più cauti. Ive li ha persino derisi, dicendo che quei prodotti sono semplicemente brutti. Non ha torto. L’AI Pin era una fornace tascabile con l’ambizione di sostituire lo smartphone, ma nemmeno un termometro avrebbe voluto stare così vicino a quella cosa.
Quindi, ora siamo nella fase spaghetti dell’AI hardware: si lancia di tutto sul muro e si guarda cosa resta appiccicato. Smart glasses, badge da collo, auricolari AI-centrici, speaker vaganti come cagnolini ansiosi. È la guerra dei form factor. Un Cluedo futurista dove, al posto del colonnello Mustard, ci sono Altman, Zuckerberg, Pichai e qualche startup pronta a morire gloriosamente in beta pubblica.
Ma cos’è davvero questo oggetto segreto? Forse non serve nemmeno che funzioni. Basta che ci crediamo. Ive e Altman stanno costruendo una mitologia, più che un prodotto. È la suspense che conta, come in quei trailer che ti vendono un film prima ancora che esista una sceneggiatura. E più passano i mesi, più il mistero cresce. Un design così radicale da diventare religioso. Come l’iPhone nel 2007. O il primo Walkman. Ma questa volta, senza schermo. Senza tasti. Solo presenza. Solo AI.
La mossa è furba: non svelano tutto, e intanto destabilizzano il mercato. Chi punta sugli occhiali ora inizia a sudare. Chi costruisce micro-display, si chiede se ha sbagliato scommessa. Chi fa chip, ricalcola roadmap. È una strategia da scacchisti, con pezzi nascosti e regole riscritte. Ma anche un bluff da pokeristi, con le fiche ben visibili ma le carte coperte.
Nel frattempo, Google lancia partnership con Warby Parker. Meta pubblica nuove lenti Ray-Ban che traducono il menu mentre sorseggi un cocktail a Phuket. E Samsung? Sussurra qualcosa con Project Moohan, che sembra più un nome di birra artigianale che un dispositivo AI. Tutti a correre, ma nessuno che sa dove sia il traguardo.
E forse, proprio lì sta la lezione. Non esiste ancora il “modello iPhone” dell’AI. Chiunque lo trovi, vincerà non solo il mercato. Ma il linguaggio. Perché l’AI non è un’app, è un compagno sensoriale. E chi lo incarna per primo, entra nella tasca, nella mente e nel portafoglio dell’umanità.
Quindi, sì, siamo nel momento più divertente. Quello in cui tutto è possibile e nulla è definitivo. Dove le regole si scrivono a colpi di leak, rendering e tweet criptici. È qui che si forgiano i miti. E per ora, il mito porta il volto di un ex designer Apple e di un CEO che vuole rendere l’intelligenza artificiale il tuo nuovo migliore amico.
Con o senza schermo. Ma sicuramente, con stile.