Sam Altman sta tentando di stabilire un nuovo record mondiale: creare un’azienda tecnologica verticalmente integrata in meno tempo di quanto ci voglia a dire “disruption”. Lo fa con la disinvoltura di chi ha capito che l’intelligenza artificiale non è più solo un software da scaricare, ma un sistema operativo per il mondo reale. E, come ogni sistema operativo degno di questo nome, ha bisogno di un corpo. Un hardware. Magari con un bel design, firmato da un certo Jony Ive.
Il matrimonio tra OpenAI e “io”—la startup fondata da Ive dopo l’addio a Cupertino—non è solo un’operazione industriale. È un manifesto estetico e politico. La presentazione ufficiale, intitolata “Sam & Jony introduce io”, ha tutta la coreografia da annuncio di nascita, foto tenera inclusa. Ma dietro le smancerie si cela un’accelerazione senza precedenti verso un nuovo imperialismo tecnologico, firmato Altman. Altman non vuole solo dominare l’AI. Vuole fabbricarla, incapsularla, venderla e — se serve — farla diventare parte integrante della nostra pelle.
A questo punto non manca più niente: ha i modelli (GPT), ha i chip (grzie alle alleanze con Nvidia, ma anche agli investimenti in semiconduttori custom), ha i datacenter (con l’aiuto di Microsoft), ha le app (ChatGPT, ma anche Sora per i video generativi, Whisper per l’audio). Ora ha anche il device.
La mossa è brutale. Verticalizzazione totale. Dallo stack fino al palmo della tua mano. Non lo fa per hobby: lo fa perché deve. Gli avversari sono i soliti mostri sacri — Google, Microsoft, Amazon — tutti capaci di controllare pipeline simili. E se Google ha già un hardware AI-ready (Pixel), Amazon ha la supply chain, e Microsoft i capitali e le leve d’ecosistema.
Apple? Assente. Anzi: umiliata.
La frecciata non è nemmeno tanto velata. Ive, nel video promozionale, liquida i prodotti attuali — smartphone, laptop — come “decenni vecchi”, “legacy”. A parlare non è solo un designer snob. È un ex-Apple, che sta dicendo al mondo: “Abbiamo avuto quindici anni per superare l’iPhone. Non l’abbiamo fatto. Ora lo faccio io, ma con qualcun altro.” Come dire: “Tim, mi hai perso.”
Ecco perché questa operazione sa di vendetta. Ive non ha mai accettato fino in fondo la deriva da Excel dell’Apple post-Jobs. Tim Cook ha fatto miliardi, ma ha perso l’anima. Quella che ora viene rifondata in chiave AI, proprio fuori dalle mura di Cupertino.
Il dettaglio che rende tutto ancora più teatrale? Ive non entra neanche in OpenAI. Rimane indipendente. Si porta dietro LoveFrom, il suo studio di design. Ma disegna in esclusiva per Altman. È come se Leonardo disegnasse il nuovo razzo per Elon Musk, ma mantenesse la firma. Più che un’acquisizione, è un’adozione creativa.
Ora, sul valore: 6,5 miliardi per una startup che non ha prodotto nulla se non prototipi è un azzardo? Sì, tecnicamente è un salto nel buio. Ma nel contesto attuale, è il prezzo dell’“aura”. Ive vale quanto un culto. Silicon Valley lo idolatra come una rockstar. Alla Stripe Sessions di quest’anno, il CEO Patrick Collison lo ha introdotto dicendo che “non ha neanche bisogno di un cognome”. Come Beyoncé, ma con il compasso.
La vera domanda però non è quanto vale “io”, ma cosa sarà io. Uno smartphone AI-native? Un wearable che integra un agente conversazionale sempre attivo? Una specie di interfaccia invisibile che vive in simbiosi con GPT-5 e successivi? Nessuno lo sa, ma tutti sanno che il futuro dell’AI non è più solo un prompt su uno schermo. È una presenza. Una protesi. Una specie di “oracolo tascabile”.
Il problema è che in questo gioco Apple doveva essere il protagonista. E invece è rimasta ferma a iterare l’iPhone, mentre Meta sperimenta occhiali AI, Amazon lavora su interfacce vocali omnipresenti, e OpenAI firma una partnership da sogno con il designer che ha inventato l’estetica del XXI secolo.
Paradossalmente, è Meta — sì, proprio Zuckerberg — ad avere oggi un prodotto AI più avanti in termini di interfaccia hardware: i Ray-Ban smart glasses. Apple, con tutta la sua potenza, si è limitata a lanciare un visore da 3.500 dollari, il Vision Pro, che è più una demo tecnologica che un prodotto mainstream. La vision c’è, ma manca il touch.
Altman invece ha capito che l’AI non deve solo essere potente. Deve essere bella. Deve sedurre. Deve integrarsi nel gesto umano, non solo nel cloud. È un ritorno alla filosofia “Jobsiana”, ma senza l’alone di misticismo: è cruda, calcolata, feroce. Un design “from first principles”, cucito attorno a modelli linguistici generativi che stanno per diventare compagni permanenti della nostra esistenza.
E intanto, Cupertino osserva. Con lo sguardo di chi sa di aver perso il proprio Virgilio, mentre l’Inferno (digitale) lo sta costruendo qualcun altro.
Una volta Ive disegnava l’iPhone. Oggi disegna il corpo dell’intelligenza artificiale. E se davvero Altman ha ragione — se davvero io sarà “la cosa più cool mai vista al mondo” — allora non è solo una mossa di business.
È l’inizio di una nuova grammatica del potere tecnologico.
E Apple? Rimane col vocabolario.