La narrativa del “riportiamo il lavoro a casa” è una delle più redditizie in politica, specie se si ha bisogno di distrarre l’elettorato da guerre commerciali auto-inflitte, deficit fuori controllo e un PIL che si trascina con la grazia di un pachiderma zoppo. Ma quando il protagonista di questa farsa è Donald Trump, e l’obiettivo si chiama Apple – con tutti i suoi iPhone cuciti al millimetro in catene di montaggio asiatiche iper-ottimizzate – il risultato è più un esperimento di fantascienza industriale che una politica economica coerente. La keyword qui è reshoring, ma con sfumature grottesche.

rump minaccia di piazzare un bel 25% di tariffa su ogni iPhone venduto negli USA ma prodotto all’estero. Così, per par condicio, include pure Samsung e chiunque osi vendere smartphone senza ingrassarli prima di orgoglio a stelle e strisce. Il concetto: o fabbrichi qui, o paghi il dazio del patriottismo. Eppure, c’è un piccolo ostacolo: la realtà tecnica ed economica. Anzi, diciamola meglio: la realtà ha appena fatto un sorriso cinico e alzato il dito medio.

Un iPhone, lo sanno in pochi, è il risultato di una logistica chirurgica e maniacalmente ottimizzata. Parliamo di una rete globale, con componenti prodotti in oltre 30 paesi, incastrati in modo tale che il semplice spostamento di un segmento – non parliamo della fabbricazione completa – comporterebbe ritardi, costi astronomici e l’equivalente industriale di un infarto multiplo. Per dare un’idea: solo la vite minuscola che fissa il Taptic Engine al telaio richiede una tolleranza che gli attuali robot “made in USA” nemmeno sognano nei loro incubi a 5 assi.

Il Segretario al Commercio Howard Lutnick – lo stesso che ha detto in TV che “milioni di persone stanno avvitando piccole, piccole viti” – ha poi dovuto correggersi. Perché Tim Cook, l’uomo che ha ereditato l’impero minimalista di Steve Jobs, gli ha ricordato che quelle viti non si avvitano da sole. Non ancora, almeno. “Quando avrò robot capaci di farlo con la stessa precisione e costo della Cina, allora sì, li porto qui”, avrebbe detto. Tradotto: non trattenere il fiato, Donald.

Il meccanismo legale che Trump potrebbe usare – l’International Emergency Economic Powers Act, IEEPA per gli amici – è lo stesso che ha già permesso di lanciare tariffe a pioggia sotto la bandiera di emergenze economiche dichiarate a piacere. Una specie di “clausola jolly” presidenziale, tanto vaga da essere quasi comica. Come dire: “È un’emergenza perché lo dico io, punto”. Il problema? Non è chiaro se i tribunali possano realmente opporsi a questa messinscena. E se la Corte del Commercio Internazionale deciderà che IEEPA è legittimo anche per tariffe specifiche, allora Cook dovrà farsi venire delle idee molto creative. O, più probabilmente, aumentare i prezzi.

E qui arriviamo al cuore della follia: iPhone a 3.500 dollari. Non è una provocazione, è una stima realistica di Dan Ives di Wedbush. Se Apple decidesse di portare davvero la produzione negli USA, in un contesto privo di manodopera specializzata in elettronica di consumo e senza infrastrutture flessibili, il prezzo triplicherebbe. E non perché Apple vuole ingrassare i margini – quelli sono già in orbita – ma perché ogni passaggio dovrebbe essere reinventato. Dall’assemblaggio al controllo qualità, dal packaging alle certificazioni.

Tim Cook lo sa, Trump lo finge di ignorare, ma l’elettore medio vede solo una bandiera sventolare e una promessa: “lavori americani per americani veri”. Peccato che, anche se spostassimo davvero tutto qui, i lavori non sarebbero per operai, ma per tecnici altamente qualificati, robotisti, programmatori, ingegneri meccatronici. Non i lavoratori della Rust Belt. Quelli continuerebbero a votare in attesa di una catena di montaggio che non arriverà mai.

Il paradosso, ovviamente, è che una tariffa contro Apple darebbe vantaggio competitivo a Samsung. Il contrario esatto di quello che Trump dice di volere. Ma si sa, in questa narrazione il nemico cambia ogni tre tweet. Oggi è la Cina, domani l’India, dopodomani il Wisconsin.

Un altro dettaglio da non ignorare: Apple già produce qualcosa negli USA. I Mac Pro, quelli da 7.000 dollari, vengono assemblati in Texas. Un gesto simbolico, ben orchestrato in chiave mediatica. Ma lontano anni luce dall’ecosistema industriale che serve per sfornare milioni di iPhone al mese.

In fondo, la storia della “produzione nazionale” dell’iPhone è un perfetto esempio di capitalismo da reality show. Si parla alla pancia del paese con un lessico da manuale: “giustizia”, “lavoro”, “sovranità”. Ma dietro le quinte, nessuno ha realmente intenzione di cambiare le cose. Troppo costoso. Troppo lento. Troppo complicato.

Nel frattempo, l’America continuerà a importare iPhone fabbricati in Cina, a pagare dazi che ricadono sui consumatori, e a raccontarsi la favola del ritorno glorioso della manifattura. È un po’ come credere che basti una firma presidenziale per riscrivere la fisica quantistica.

Come disse una volta un dirigente Foxconn durante un’intervista informale: “L’America vuole produrre iPhone? Certo, ma deve prima costruire una Cina in America”. Ecco, magari cominciamo da lì. Ma senza cacciaviti.