Il lato oscuro dell’intelligenza generativa: progettare agenti AI che funzionano davvero (e non implodono al primo task reale)
Siamo circondati da fuffa travestita da progresso. Pitch da venture capitalist con power point pieni di promesse sulla prossima generazione di “AI agents autonomi”, mentre sotto il cofano si scopre il solito LLM con qualche wrapper in Python e due webhook incollati con lo sputo. Ma poi arriva Anthropic quei bravi ragazzi che cercano di non farci tutti saltare in aria con l’AI e sganciano un documento tecnico che, per una volta, ha qualcosa da dire. Anzi, qualcosa da insegnare.
Non è la solita guida teorica. Qui si parla di architetture che funzionano. Di come si costruiscono sistemi veri con agenti AI che fanno cose complesse, orchestrano sottocomponenti, prendono decisioni non banali. E soprattutto, si punta alla parola magica: affidabilità.
Una nota prima di entrare nel dettaglio: tutto ciò che leggerai si applica agli AI agent ma si estende, per osmosi strutturale, a qualsiasi sistema avanzato basato su modelli generativi. Il cuore pulsante è lo stesso: LLM, strumenti, retrieval, memoria. Non confondere la forma con la sostanza.
I mattoni non mentono. La combinazione di un Large Language Model con memoria, strumenti esterni e capacità di recuperare informazioni in modo dinamico, costituisce la base. Senza questi elementi, non hai un agente, hai una chatbot con le manie di grandezza. Ecco perché la logica modulare — dove ogni componente è isolato, testabile e ottimizzabile — resta l’unico modo serio di costruire qualcosa che regga l’urto della realtà.
Un passaggio chiave: il prompt chaining. La capacità dell’agente di decomporre problemi complessi in una serie di micro-task sequenziali. Questo non è solo elegante, è necessario. Perché nessun LLM, per quanto grosso, gestisce bene il caos in un solo colpo. E come diceva Von Neumann: “Give me a task I can recurse.”
Poi arriva il routing. Qui si fa selezione darwiniana delle strategie. Hai un input? L’agente decide dove mandarlo. Non con un if-else
da scriptino universitario, ma con un layer di decisione gestito da un LLM stesso. Meta-routing, lo chiamano. Un po’ come se il cervello decidesse a quale parte del cervello delegare la roba difficile.
E già che ci siamo, parallellizzare tutto. Perché se hai cinque sottotask, perché non farli in contemporanea? Ma attenzione: qui si rompe la narrativa semplicistica degli agenti “autonomi”. Serve coordinamento, serve controllo, serve un orchestrator. Ed è qui che entra in gioco la vera magia: la struttura Orchestrator-Workers.
Il LLM centrale non fa tutto. Fa il direttore d’orchestra. Prende decisioni, smista task, controlla i flussi. Gli altri modelli (i worker) eseguono. La bellezza? Tutto è asincrono, modulare, e se uno dei worker fallisce, non ti schianta l’intero sistema. Sembra microservizi, ma con neuroni artificiali.
Poi c’è la parte più cinica ma più vera: l’evaluatore. L’intelligenza che valuta l’intelligenza. Un altro LLM, che non crea, ma giudica. Una specie di revisore fiscale dei contenuti generati. Ti dice dove sbagli, cosa ottimizzare, cosa non ripetere. È qui che l’iterazione diventa concreta. Altro che “fine-tuning”. Questo è il reinforcement che funziona davvero.
Ed è su questo punto che Anthropic sgancia il mantra definitivo: la semplicità vince sempre. Gli agenti migliori sono quelli costruiti con pattern semplici e ricombinabili. Non devi partire con un’architettura da 12 moduli e 3 livelli di recursion. Parti con uno, e fallisci in fretta. Ma fallisci in modo misurabile, iterabile, raffinabile.
Un dettaglio sublime (che gli hype men ignorano): sapere quando usare un agente e quando invece serve un semplice workflow. Se il tuo task è deterministico, ripetitivo e predefinito, non hai bisogno di un agente, hai bisogno di un cron job con un po’ di logica. L’agente serve quando entri nel territorio della variabilità, dell’incertezza, del contesto mutevole. Lì sì che il gioco si fa interessante.
E poi c’è l’arma segreta: Augmented LLM. Quando al modello aggiungi strumenti esterni, capacità di fare retrieval, accesso alla memoria, capacità di scrivere ed eseguire codice. A quel punto il tuo LLM smette di essere un pappagallo con training raffinato e diventa una piattaforma cognitiva. Una vera mente sintetica distribuita. Praticamente, Blade Runner senza le lacrime nella pioggia.
Ora, la parte che gli ingenui saltano: l’iterazione non è un’opzione. È l’unica via. Parti semplice, metti metriche, osserva, ottimizza. Poi ricomincia. Ogni agente che funziona è il frutto di almeno 10 versioni che non funzionavano. Se non ti piace fallire velocemente, resta a scrivere report su GPT-4 e le sue potenzialità per la supply chain.
E mentre i manager si perdono nei canvas e nelle ROI ipotetiche, chi ha capito davvero il gioco, sta costruendo sistemi adattivi. Che non hanno bisogno di essere riscritti ogni mese, ma si auto-ottimizzano. Che crescono. Che imparano. Il futuro degli agenti non è autonomia, è adattività controllata.
Sai qual è la cosa più interessante di tutto questo? Che non stiamo parlando di intelligenza artificiale. Stiamo parlando di sistemi cognitivi distribuiti, costruiti da esseri umani che finalmente hanno capito come disegnare un’intelligenza che non collassi appena il mondo reale bussa alla porta.
Per chi ha davvero intenzione di entrare in questo gioco, il documento di Anthropic è un benchmark. Ma non cadere nell’errore di prenderlo come Bibbia. È un’istantanea. Il vero oro è nei principi: modularità, iterazione, orchestrazione, valutazione, semplicità.
Se invece pensavi di cavartela con un paio di API call a OpenAI e un’interfaccia in React, sei ancora al livello dello sciamano che disegna cerchi nel fango e li chiama mappe.
“L’intelligenza non è sapere tutto. È sapere dove mandare le domande.”
– Da qualche parte, probabilmente dentro un LLM che ha letto troppo Bateson.