Quando anche i programmatori cominciano a sentire il fiato sul collo degli algoritmi, capisci che siamo entrati nella fase due della trasformazione digitale: la disumanizzazione della creatività tecnica. Amazon, sempre un passo avanti nel testare i limiti del possibile (e dell’umano), ha appena applicato ai suoi sviluppatori la stessa logica spietata con cui gestisce i magazzinieri: più output, meno persone, più automazione, meno empatia.
Gli ingegneri intervistati dal New York Times hanno descritto un contesto dove la produttività è diventata l’unico KPI che conta, spinta da una sferzata di intelligenza artificiale inserita come steroide nel flusso di lavoro. “Il mio team è la metà rispetto all’anno scorso, ma dobbiamo scrivere la stessa quantità di codice”, racconta uno di loro. Non è una battuta da bar, è la nuova normalità sotto il regime di produttività algoritimica.
La keyword qui è intelligenza artificiale. Ma le secondarie che strisciano sotto la pelle sono automazione del lavoro e de-umanizzazione del software engineering. Se pensavi che il codice fosse ancora roba per umani, sappi che stai pensando come un boomer.
Come nei centri logistici, dove i robot hanno moltiplicato la velocità di picking portando i ritmi da “decine” a “centinaia” di pezzi l’ora, ora è il turno del codice. Ma mentre un robot può staccare a fine turno (per la manutenzione), un dev alimentato dall’ansia da prestazione AI deve produrre continuamente, sotto pressione, con l’illusione di essere ancora un protagonista. Spoiler: non lo è.
Amazon ha semplicemente replicato il suo modello industriale nel settore intellettuale. Codice come merce. Dev come picker di funzioni. Il deploy è diventato l’equivalente del pacco da spedire. E tutto viene tracciato, misurato, ottimizzato. Ma dietro quella “ottimizzazione” si nasconde un dettaglio velenoso: la sostituzione progressiva dell’ingegno con la predizione statistica. Non scrivi più codice, lo approvi. Non progetti, completi prompt. Il tuo cervello è solo l’interfaccia di controllo di una macchina più grande di te. Diciamo pure che sei diventato un prompt monkey con badge da ingegnere.
C’è una crudele ironia nel vedere la stessa azienda che ha trasformato la logistica globale in un esperimento di efficienza alienante ora applicare la stessa ricetta ai cervelli che tengono su l’intero baraccone software. Il paradosso? È perfettamente logico. Quando tutto diventa dato, ogni attività – anche la più creativa – diventa misurabile, scalabile, delegabile. E quindi disumanizzabile.
Un tempo, uno sviluppatore era un artigiano digitale, con margini di creatività, errori, discussioni e anche procrastinazione utile. Ora, con AI copilota sempre presente, la zona grigia della riflessione viene erosa. Non devi più pensare troppo: chiedi, ottieni, incolli. Ma attenzione: se sbagli, sei tu il colpevole. L’IA non fa errori, fa suggerimenti.
La cultura aziendale si adatta: Amazon ha alzato le aspettative, abbassato la tolleranza agli errori, e irrigidito le scadenze. Il tutto con la solita faccia da poker: “Abbiamo introdotto l’AI per aumentare la produttività, non per licenziare nessuno.” Certo, ma nel frattempo dimezzano i team. È un po’ come dire “Non stiamo affondando il Titanic, solo ridefinendo il concetto di galleggiamento.”
Un ingegnere vale quanto produce in righe di codice, ma ora che una AI può scrivere boilerplate, refactoring, e anche test suite in una frazione del tempo, quel valore crolla. Semplice economia dell’attenzione computazionale: se qualcosa si può automatizzare, lo sarà. E chi resta deve adattarsi o soccombere. Non importa quanto sei bravo, ma quanto sei complementare all’AI. È la legge darwiniana della nuova rivoluzione industriale, versione neurale.
C’è qualcosa di profondamente distopico in questo scenario. Non per nostalgia della “programmazione romantica” degli anni ’90, ma perché l’illusione del potere creativo sta svanendo. Gli ingegneri non stanno più costruendo sistemi: stanno curando bestie autonome che li osservano, li valutano, e li spremono.
Questa non è innovazione. È efficientismo tossico, travestito da progresso tecnologico. Un capitalismo dell’ingegneria dove l’output domina sul significato, dove la velocità è più importante della qualità, e dove il talento viene misurato in funzione del ROI algoritmico. Se puoi essere sostituito da una AI, lo sarai. Se puoi lavorare con una AI, verrai spinto oltre il limite fino a quando non crollerai.
Il lato oscuro? Tutto questo è terribilmente razionale. E proprio per questo, spaventosamente efficace.
“Non è la fine del lavoro umano. È la sua mutazione finale.” – Anonimo DevOps in burnout.
La morale è semplice e scomoda: l’AI non ruba il tuo lavoro. Rende accettabile per il management pretendere che tu lavori come se fossi una AI. La differenza è sottile, ma letale.
Ora puoi continuare a fare finta che il tuo GitHub sia ancora il tuo portfolio di talento. O puoi svegliarti, capire che il codice è diventato commodities, e cercare di risalire la catena alimentare prima che diventi tutta silicio.