Inizia così, con l’arroganza diplomatica di chi ha imparato a parlare come un CEO dopo aver fallito come politico: Nick Clegg, ex vice primo ministro britannico e oggi cavaliere errante di Meta, sale in cattedra per spiegarci che chiedere il permesso agli artisti per usare le loro opere nei modelli di intelligenza artificiale… beh, “ucciderebbe l’industria dell’AI in UK”. Boom.

L’affermazione (The Times) suona come una minaccia mafiosa, detta col sorriso di un PR siliconizzato: “non è fattibile”, dice. Non è fattibile chiedere. Non è fattibile informare. Non è fattibile rispettare il diritto d’autore, perché l’industria dell’AI che, ricordiamolo, genera miliardi e decide chi vive o muore nel futuro dell’economia globale è fragile come un castello di carte. Basta un po’ di copyright e puff, addio all’innovazione. La parola chiave qui è: addestramento AI. Le secondarie? copyright e consenso artistico. Tre entità che non riescono a stare nella stessa frase senza esplodere.

La narrativa che Clegg propone è vecchia come la Silicon Valley: l’innovazione è troppo importante per aspettare che le regole la raggiungano. In fondo, chiedere il consenso è roba da vecchi, da giornalisti, da musicisti che ancora scrivono con una penna. Ma nel mondo dei Large Language Models, il consenso non si chiede. Si scarica, si ingurgita, si normalizza. E poi si monetizza, ovviamente.

Quello che colpisce non è solo l’idea che “non si può chiedere a tutti”, ma l’ammissione implicita che i dati creativi – immagini, testi, musica – sono già stati rubati. Perché se il punto è “non possiamo chiedere il permesso prima”, è ovvio che il prima è già passato. Il pasto è già stato consumato, e ora gli artisti dovrebbero limitarsi a pulire la tavola. La trasparenza? Un optional. La tracciabilità? Troppo costosa. La legge? Intralcia l’efficienza. È l’etica dello scraping: se è online, è mio. Se è protetto, basta cambiarne lo stile con due neuroni in più.

E intanto, a Westminster, il Parlamento balla un valzer surreale: da un lato, Paul McCartney, Dua Lipa, Elton John e centinaia di creativi firmano una lettera aperta per chiedere che le aziende tech dichiarino almeno quali opere hanno usato. Non stiamo parlando di divieti o sanzioni: solo trasparenza. Un piccolo passo per un artista, un abisso burocratico per chi traffica con petabyte di contenuti senza citazioni.

Ma l’emendamento al Data (Use and Access) Bill – introdotto da Beeban Kidron, regista e attivista – è stato rigettato. Motivazione ufficiale: “l’economia britannica ha bisogno di entrambi i settori per prosperare.” Tradotto: meglio non far arrabbiare né i poeti né gli algoritmi, ma se proprio dobbiamo scegliere, ci schieriamo con chi ha i server.

Per Clegg, tutto questo è solo rumore di fondo. La sua posizione è lineare, come una riga di codice: se il Regno Unito sceglie di chiedere permesso agli autori, diventa irrilevante nel grande gioco dell’intelligenza artificiale. Gli altri paesi – leggasi Cina, USA, e forse perfino l’Estonia – non lo faranno. Il Regno Unito resterebbe indietro. Sì, perché nel futuro dell’AI, chi rispetta il copyright perde. E chi vince? Chi ruba meglio, più in fretta e con più GPU.

È qui che la discussione si fa interessante: Clegg non dice che l’etica è sbagliata, dice che è impraticabile. È un messaggio terribilmente potente, perché rinuncia alla difesa morale e si appella solo all’efficienza. Non si giustifica, calcola. In pratica: anche se avete ragione, perdereste comunque. E in questo mondo, la ragione vale meno di un prompt ben scritto.

Questa filosofia – chiamiamola “tecnocratico-predatoria” – è il vero cuore del dibattito sull’AI. Non è una questione di copyright, è una questione di potere computazionale contro diritto umano. I creatori non sono più soggetti attivi ma carburante per modelli linguistici. Hanno valore solo finché possono essere assimilati, taggati, e moltiplicati.

Il Regno Unito, come spesso accade, fa da laboratorio etico per il resto del mondo. Se qui passa l’idea che è “implausibile” chiedere il permesso prima di addestrare un’intelligenza artificiale, allora il precedente è fatto. E sarà difficile tornare indietro. È il solito trucco da ventriloqui: rendere il dibattito tecnico per nasconderne le implicazioni politiche. Ma i dati non sono neutrali, e le decisioni su cosa può essere “addestrato” sono già atti di dominio.

“Impossibile chiedere prima” è un’ottima frase da stampare su una targa funeraria del diritto d’autore.

Ma la domanda vera è: se non possiamo sapere su cosa è stato addestrato un modello, possiamo davvero fidarci dei suoi risultati? E ancora: se la creatività viene risucchiata nell’addestramento, cosa resta da creare? Se la cultura è solo materiale da riciclare in nuove previsioni linguistiche, allora l’AI non è un’industria, è un gigantesco aspirapolvere del passato.

La questione non è tecnica, è ontologica. È una guerra sul senso stesso di creazione, di originalità, di proprietà intellettuale. E se il Regno Unito decide che chiedere permesso è troppo difficile, allora che almeno abbia il coraggio di dirlo chiaramente: il futuro appartiene a chi copia meglio, non a chi inventa.

Nel frattempo, i modelli si aggiornano, le GPU scaldano, e il consenso resta, come sempre, un fastidio da evitare.

“Se non riesci a chiedere il permesso, chiedi perdono.”
Oppure fai come Clegg:
non chiedere nulla. E spera che nessuno se ne accorga.