Nel silenzio solo apparente dell’Asia che non fa rumore, OpenAI il colosso dell’AI forgiato nella Silicon Valley e sospinto dalle ali di Microsoft ha deciso di piantare una nuova bandiera: questa volta in Corea del Sud. Non un atto simbolico, ma una scelta chirurgica. La nuova entità legale è già stata registrata, e l’ufficio a Seoul è in fase di allestimento. Il messaggio tra le righe è chiaro: il futuro si parla anche in coreano.

Perché proprio la Corea del Sud? Domanda legittima, risposta illuminante. Secondo dati ufficiali forniti dalla stessa OpenAI, la Corea del Sud è il mercato con il più alto numero di abbonati paganti a ChatGPT al di fuori degli Stati Uniti. Più che un dato, un termometro sociale. Un paese da 52 milioni di persone, noto per la sua ossessione tecnologica, per le sue infrastrutture digitali al limite della fantascienza e per la sua popolazione che vive più tempo sugli schermi che nei letti.

Tradotto in linguaggio CEO: LTV alto, CAC basso, e un ecosistema già pronto. La Corea del Sud non è solo un mercato: è un campo di prova avanzato, un banco di stress test culturale per ciò che verrà.

Dietro l’annuncio istituzionale si cela però una strategia più profonda, più sottile. Aprire una sede a Seoul significa entrare nella mente collettiva coreana, fondersi con l’apparato formativo, accedere direttamente a istituzioni, startup, conglomerati (leggasi: chaebol) e intellettuali. Significa fare scouting di talenti, ma anche e soprattutto di dati. Perché l’AI non si nutre di buone intenzioni, ma di corpus linguistici, insight di comportamento, pattern di utilizzo. E la Corea è un pozzo d’oro, strutturato e iper-connesso.

La narrativa ufficiale parla di “supporto alle partnership” e “reclutamento di personale”. Ma dietro queste formule di PR si delinea un disegno geopolitico. OpenAI ha già posizionato presidi in Giappone e Singapore — due hub nevralgici in Asia — e ora con Seoul si crea un triangolo strategico. Il triangolo orientale dell’AI, un asse invisibile di influenza culturale e operativa. È come se l’azienda stesse tessendo una rete neurale, non solo nei data center, ma nelle città.

C’è anche un altro dettaglio che puzza di lungimiranza: mentre in Europa ci si strappa le vesti tra regolamenti e moralismi, in Asia le regole sono snelle, l’adozione è frenetica e la fame di innovazione è pura idolatria. In Corea del Sud, se non sei in anticipo sul futuro, sei già morto. Il paese ha una penetrazione mobile superiore al 95%, una cultura dell’istruzione che rasenta il fanatismo, e governi che vedono nell’AI non un nemico da normare, ma un alleato per la crescita del PIL.

Non è un caso se ChatGPT qui non è una moda, ma uno strumento operativo già integrato nel workflow di manager, studenti, sviluppatori. Le aziende coreane — Samsung, LG, Hyundai, Naver — non stanno a guardare. Stanno costruendo modelli linguistici, integrando AI generativa in tutto, dalla domotica alla finanza. OpenAI lo sa. E arriva a raccogliere e soprattutto a catalizzare questo fermento.

Secondo fonti interne, OpenAI ha già quasi 40 dipendenti in Giappone e 20 a Singapore. Ora parte il reclutamento in Corea. Non cercano solo ingegneri: cercano “local connectors”, ponti culturali, interfacce umane tra la tecnologia e il paese. In gergo da venture capitalist: stanno costruendo la “go-to-market machine”.

Qualcuno potrebbe dire: ma non è troppo tardi? Troppi già in corsa? Troppo saturi i canali? La risposta è: non per chi detiene la tecnologia più avanzata al mondo, non per chi ha Microsoft come cavaliere bianco e una GPU-farm da far impallidire la NASA. In realtà, è il momento perfetto. Quando l’entusiasmo è alto, ma la maturità ancora bassa. Quando tutti vogliono usare, ma pochi sanno costruire. Ed è lì che OpenAI si insinua. Come un protocollo invisibile. Come un’infrastruttura silenziosa che prende possesso del sistema.

Non sottovalutiamo infine il soft power. In Corea del Sud, chi entra nelle università, nei media e nei policy paper vince. OpenAI non vuole solo utenti: vuole influenza. Vuole essere il verbo, non solo lo strumento. E in un paese dove ogni millimetro di status culturale conta, essere il fornitore ufficiale di AI diventa una carta geopolitica.

“Una società che programma l’AI è una società che scrive il futuro”, diceva qualcuno (forse proprio Sam Altman). E la Corea è pronta a farsi scrivere. Oppure, più probabilmente, a co-scrivere.

Il resto dell’Asia? Osserva. Prende nota. E prepara la replica. Ma intanto, il dado è tratto.

Siamo tutti coreani ora.