
Il palcoscenico della politica commerciale globale si è trasformato ancora una volta in uno spettacolo ad alta tensione. Trump, da sempre più showman che statista nel senso classico, ha colpito ancora su Truth Social, quella sua arena personale dove il filtro istituzionale evapora come un tweet di Musk alle tre del mattino. Stavolta al centro della scena ci sono le trattative commerciali con l’Unione Europea, la Cina come spettatore interessato, e un’icona tech come Apple usata come leva simbolica e semantica. La parola d’ordine? Tariffe parola chiave principale. Intorno a lei orbitano “negoziati commerciali”, “Apple” e “Trump”, come satelliti in cerca di una nuova orbita geopolitica.
Trump ha annunciato di aver gentilmente concesso alla Commissione Europea una proroga fino al 9 luglio 2025 prima di attuare l’aumento delle tariffe al 50% sui beni UE. Un’estensione magnanima, a suo dire, in risposta alla richiesta della Presidente Ursula von der Leyen. Il tono, come sempre, è più quello di un CEO che concede un bonus a un manager in difficoltà, che quello di un leader mondiale che tratta con un alleato storico.
“They will BOTH be very happy, and successful, if they do!!!”, ha scritto Trump, riferendosi a Europa e Cina come due figli indisciplinati che finalmente capiranno che “papà USA” ha sempre avuto ragione. Il linguaggio usato non è casuale: infantilizza, semplifica, domina. È un classico esempio di soft power travestito da hard talk, in cui la vera forza non è nella tariffa, ma nel frame narrativo che viene imposto al pubblico (e ai mercati).
Nel frattempo, von der Leyen cerca di salvare la faccia twittando in politichese corretto: “Good call with @POTUS… To reach a good deal, we would need the time until July 9.” Traduzione simultanea per chi conosce i codici: “non siamo pronti, stiamo cercando di non farci spaccare le ossa”.
Ma il vero subplot si gioca altrove, nel mondo parallelo in cui Elon Musk regna sovrano. Dopo un blackout su X (ex-Twitter), Musk si è visto costretto a fare quello che un imperatore digitale non dovrebbe mai fare: ammettere una debolezza infrastrutturale. “Major operational improvements need to be made”, ha detto, ammettendo che il failover, cioè il sistema di backup automatico, non ha funzionato. Per uno che costruisce razzi e intelligenze artificiali, suona come un prete che dimentica l’Ave Maria. Il timing non è casuale: ogni fallimento tecnico di Musk è una finestra d’attacco per i suoi detrattori, e uno spunto di riflessione sul fatto che, anche nel mondo delle super-aziende, la resilienza è spesso solo una parola nel pitch deck.
In questo clima di trattative, minacce velate e diplomazia da social, Apple viene tirata in mezzo come pedina di lusso. Trump, sempre su Truth Social, ha minacciato di imporre un dazio del 25% sugli iPhone prodotti fuori dagli USA. È un’arma puntata al cuore dell’ecosistema tech americano, e non è un caso che Kevin Hassett, del National Economic Council, si sia affrettato a calmare le acque su CNBC: “non vogliamo fare del male ad Apple”, ha detto con l’aria di chi sta cercando di placare un investitore isterico dopo un profit warning.
La verità è che il nome Apple funziona come un amplificatore mediatico. Se dici “tariffe su lavatrici”, ti legge il Financial Times. Se dici “tariffe su iPhone”, ti ascolta il mondo. È marketing geopolitico, applicato con chirurgica precisione.
Ciò che emerge da questo caos solo apparentemente disordinato è un’architettura di potere in cui le tariffe non sono più strumenti economici, ma leve semiotiche. Ogni annuncio, ogni proroga, ogni dichiarazione, serve a testare la reazione dell’altro, ma soprattutto quella dei mercati. La Borsa è il vero elettorato di Trump, non gli americani medi che si preoccupano per il prezzo dei telefoni.
La dinamica tra USA e UE, incorniciata dalla proroga al 9 luglio 2025, non è solo una trattativa su beni e servizi. È un confronto simbolico sul dominio tecnologico, sulla capacità negoziale europea (che latita) e sulla visione di un’America che, ancora una volta, vuole essere l’unico mercato finale degno di questo nome. Il fatto che von der Leyen debba “chiedere tempo” è già una sconfitta semantica. In diplomazia, come nel poker, se chiedi tempo, hai già perso l’iniziativa.
Nel frattempo, Musk si auto-flagella per i problemi su X, come un samurai digitale in cerca di redenzione, mentre i suoi razzi sono pronti al lancio. E nel sottobosco dei forum finanziari, la vera discussione non è su quanto dureranno le trattative, ma su quale sarà il prossimo titolo a subire l’effetto boomerang delle politiche trumpiane.
In tutto questo, c’è un’unica certezza: la tariffa è tornata ad essere il cavallo di Troia dell’ego politico. Solo che questa volta, dentro il cavallo, ci sono chip, batterie e intelligenze artificiali. E fuori, ad aspettarlo, c’è un’Europa che non sa più se fare la guardia o aprire le porte.
“Il libero commercio è un’illusione condivisa da quelli che non comandano”, diceva un vecchio lobbista di Bruxelles. Oggi è più vero che mai.