La scena è questa: un ex presidente in campagna elettorale, una piattaforma social da lui stesso fondata, e una multinazionale da tre trilioni di dollari che cerca di diversificare la sua catena di montaggio. Ingredienti perfetti per una tempesta a stelle e strisce, o meglio, una tempesta protezionista in pieno stile Donald Trump.

Donald Trump, in uno dei suoi tipici exploit digitali su Truth Social, ha lanciato un’intimidazione tariffaria a Cupertino: 25% di dazi su tutti gli iPhone importati, a meno che Apple non inizi a produrli negli Stati Uniti. Non in India. Non in Cina. Non su Marte. Solo qui, tra hamburger e pistole.

E no, non è la solita boutade da campagna elettorale. Trump, da sempre ossessionato dal deficit commerciale e dalla deindustrializzazione americana, ha già mostrato in passato di essere disposto a far saltare gli equilibri globali del commercio pur di inseguire il suo mantra: America First. Anche se, spoiler: nella realtà dei mercati e dei semiconduttori, America First rischia spesso di tradursi in America Last.

Apple, da parte sua, è in piena mutazione genetica produttiva. Dopo anni di dipendenza da Foxconn e dall’impero cinese delle fabbriche, sta rapidamente delocalizzando la produzione in India, con investimenti massicci e partnership strategiche. Non per ideologia. Per sopravvivenza. La Cina non è più quella Disneyland della manifattura che garantiva ordine, disciplina e margini. È diventata un rischio geopolitico, una mina vagante. L’India, invece, offre manodopera a basso costo, incentivi fiscali e l’aria fresca di un’alleanza strategica con l’Occidente.

Ma Trump non vuole sentire ragioni. Ha dichiarato di aver già “informato da tempo Tim Cook” – come se il CEO di Apple fosse il suo addetto stampa – e si aspetta che gli iPhone venduti in America siano anche costruiti in America. La logica è quella di chi guarda un iPhone come se fosse un tostapane: prendi acciaio, plastica e manodopera, e lo fai qui, punto.

Peccato che l’ecosistema tecnologico necessario per costruire un iPhone non esista più negli Stati Uniti. O forse non è mai esistito. Il know-how industriale, la capacità di assemblaggio su larga scala, le forniture just-in-time, la forza lavoro specializzata disponibile 24/7 – sono tutte qualità che l’Asia ha coltivato per decenni e che l’America ha felicemente esternalizzato.

Apple produce all’estero non perché Tim Cook è cattivo, ma perché fare un iPhone in Ohio costerebbe quanto una Tesla. E il consumatore medio, che nel frattempo si lamenta dell’inflazione, non è disposto a pagare 2.000 dollari per uno smartphone “patriottico”.

Trump sa benissimo che un dazio del 25% non porterà Apple a costruire fabbriche a Detroit. Ma sa anche che dire “li obbligherò a produrre in America” genera like, rabbia, applausi. È propaganda da wrestling politico, dove il colosso Apple è il nemico perfetto: ricco, globalizzato, woke.

Nel frattempo, Cupertino sta già giocando la sua partita. La pressione politica viene metabolizzata come parte del rischio sistemico. Le mosse verso l’India sono accelerazioni pianificate per restare agili in uno scenario multipolare dove gli Stati Uniti non sono più l’unico centro di gravità. Apple non è stupida. Sa che il futuro non è “Make in USA”, ma “Make where it’s stable enough and cheap enough”.

E poi, diciamolo: quale fabbrica americana può reclutare, formare e motivare 300.000 operai che vivono negli alloggi della Foxconn, mangiano nei dormitori aziendali e assemblano 500.000 iPhone al giorno? Qui da noi, al massimo, scioperano perché mancano le caramelle al distributore.

Nel 2017, Trump provò a convincere Foxconn a costruire una mega-fabbrica in Wisconsin. Ricordate? Doveva essere la Silicon Valley del Midwest. Alla fine: 13.000 posti promessi, meno di 1.500 reali, miliardi spesi in sussidi pubblici, e uno stabilimento usato come magazzino. È stato il Woodstock del nulla industriale. Ma ha fatto titolo per un anno. E questo basta.

Questa nuova minaccia tariffaria, quindi, va letta per ciò che è: un tweet con i muscoli, non una strategia industriale. Trump lo sa. Cook lo sa. E forse, anche Wall Street lo sa, anche se ogni volta che Trump spara una di queste, i titoli tech ondeggiano come steli al vento.

Curiosamente, non è l’amministrazione Biden a chiedere ad Apple di rientrare. Anzi, sotto Biden, le politiche industriali sono state più keynesiane e meno muscolari, con incentivi per semiconduttori e produzione nazionale, non ricatti doganali. Ma Trump ha il talento di rendere ogni tema tecnico una questione di orgoglio nazionale, perfetto per la pancia elettorale.

Nel frattempo, Apple continuerà a fare quello che fa meglio: adattarsi, ottimizzare, diversificare, e produrre dove conviene. Magari con un maquillage comunicativo tipo “Designed in California, Assembled in Freedom”, giusto per non far arrabbiare troppi elettori.

Tanto lo sappiamo: finché il prossimo iPhone avrà tre fotocamere, una batteria decente e la mela luccicante sul retro, nessuno si chiederà se è stato fatto in Texas o a Tamil Nadu. Al massimo, si lamenteranno che è arrivato con due giorni di ritardo da Amazon.

“Gli iPhone dovrebbero essere prodotti in America”, dice Trump. Ma poi accende il suo, scrolla Twitter (scusate, Truth Social) e twitta il prossimo delirio.

Bentornati nel circo elettorale USA.