Là dove l’Impero Celeste chiude le porte, l’Impero dell’Ovest dovrebbe spalancarle. Non per amore della libertà — concetto vago e flessibile, soprattutto quando si parla di politica monetaria — ma per strategia, dominio tecnologico e quel sottile desiderio di mettere i bastoni tra le ruote a Xi Jinping. Così ha parlato il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance alla Bitcoin Conference di Las Vegas, senza troppi giri di parole: “La Cina odia Bitcoin. Noi, quindi, dovremmo abbracciarlo.”

Un pensiero semplice, quasi infantile nella sua linearità, eppure tremendamente efficace in termini geopolitici. Perché sì, la keyword è Bitcoin. E quelle che lo seguono da vicino sono asset strategico e riserva digitale. Il nuovo lessico del potere non parla più solo di missili ipersonici o porti militari in Africa, ma di nodi blockchain e SHA-256.

La criptovaluta come nuovo oro digitale è ormai un ritornello. Ma qui c’è di più: l’idea che il governo USA, con Trump alla regia e Vance nel ruolo del portavoce cinico e ben pettinato, voglia istituzionalizzare Bitcoin. Non regolamentarlo a morte come sognano le frange nostalgiche della SEC, ma renderlo una leva strategica. Un’arma, un deterrente, una risorsa di stato.

E infatti, lo scorso marzo, è arrivato il primo segnale concreto: ordine esecutivo presidenziale per la creazione di una riserva strategica di Bitcoin, con token già in possesso del governo. Nessuna conferma sui volumi — ma tra leak pilotati e rumors di ambienti vicini al Tesoro, si parla di una cifra tra i 50.000 e i 100.000 BTC. Sufficienti, se gestiti con astuzia, per creare un nuovo pilastro nella politica monetaria americana. O, più verosimilmente, per disarticolare quella altrui.

Se non vi sembra abbastanza folle, ripensate al fatto che il mining in Cina è bandito dal 2021, con blitz degni della Guerra all’Oppio digitale. Interi data center rasi al suolo, apparati confiscati, migliaia di operatori migrati in Kazakistan o Texas. Ufficialmente, per ragioni ambientali. In realtà, perché Bitcoin è il cavallo imbizzarrito che Pechino non riesce a sellare: decentralizzato, resistente alla censura, immune al controllo del partito.

Ed è proprio questo che lo rende prezioso per Washington.

Il “nemico del mio nemico è mio amico”, versione blockchain. Con buona pace dei puristi libertari, la narrativa sta cambiando: da valuta anti-sistema a risorsa statale. E se Vance — ex venture capitalist con un’anima da falco — spinge in quella direzione, è perché dietro c’è un disegno preciso. In bilico tra realpolitik e distopia techno-nazionalista.

Nel frattempo, il Congresso balla su un filo normativo. Si parla di regolamentazione per gli stablecoin, i famigerati token ancorati al dollaro. Un modo per tenere un piede in due scarpe: mantenere l’egemonia del dollaro, ma digitalizzarla abbastanza da competere con il renminbi digitale. E dietro le quinte, ovviamente, la lobby cripto fa il suo mestiere: 119 milioni di dollari spesi in campagna elettorale per sostenere candidati “crypto-friendly”. Lo chiamano lobbying, ma ha l’odore classico della pre-compravendita di politica monetaria.

Nel frattempo, Trump si autoproclama “crypto president”. Retorica da casinò, certo, ma attenzione: ogni volta che questo uomo ha detto qualcosa che sembrava ridicolo, è finita con i media a rincorrerlo tre mesi dopo. E allora eccolo, nella prima settimana di mandato, convocare un gruppo di CEO del settore alla Casa Bianca. Lì, tra handshake e bourbon invecchiato, si pongono le basi di una nuova pax americana — basata non su armi, ma su wallet cold storage.

Qui non si tratta di creare una criptovaluta governativa. Quello è il giochino delle banche centrali — e funziona solo nei regimi dove la moneta è già controllata in ogni respiro. No, qui si tratta di appropriarsi di ciò che sfugge al controllo, e usarlo contro chi pretende il controllo assoluto. Cioè la Cina.

È un ribaltamento narrativo affascinante: Bitcoin non più anarchico, ma patriottico. Non più minaccia all’ordine, ma garanzia della supremazia. È il sogno bagnato di ogni techno-conservatore con una laurea a Yale e una paura viscerale della CBDC cinese.

Come disse qualcuno, “Il potere corrompe. Il potere decentralizzato… corrompe in modo distribuito.” Ma in questo nuovo equilibrio instabile, quella corruzione potrebbe diventare paradossalmente virtuosa. Una forma di caos calcolato, utile a destabilizzare un ordine nemico troppo ordinato.

Perciò, se la Cina odia Bitcoin, forse è proprio il momento di amarlo. O meglio: di domarlo. E di farne un’arma geopolitica a stelle e strisce.