Il Giappone, quel laboratorio sociotecnico a cielo aperto dove l’ossessione per il dettaglio incontra la riluttanza al cambiamento, sta per essere scosso da qualcosa di piccolo, minuscolo, quasi ridicolo. Ma, come spesso accade in queste isole, ciò che sembra irrilevante può diventare fatale per i giganti.

A Higashihiroshima, in una di quelle periferie dimenticate dove il tempo passa in silenzio e i vicoli si stringono come i pensieri nei lunedì mattina, un ex YouTuber convertito in imprenditore sta per dare una lezione imbarazzante all’intera industria automobilistica nazionale. Il suo nome è Kazunari Kusunoki. Il suo giocattolo: il mibot, una scatoletta a quattro ruote da un posto solo, alimentata a batteria, che costa meno di uno scooter truccato. Ma attenzione: dietro l’estetica da golf cart c’è l’incubo di Akio Toyoda.

Kusunoki ha deciso che l’era delle megacar da parcheggiare con la mappa non ha futuro in un paese dove le strade sono più strette delle menti dei suoi burocrati. Il mibot misura meno di un metro e mezzo d’altezza, percorre 100 chilometri con una carica, raggiunge i 60 all’ora e costa 1 milione di yen, circa 7.000 dollari. Tradotto: metà del prezzo della Nissan Sakura, il simbolo dell’“EV giapponese ben educato”.

Nel frattempo, Toyota, lo zar dell’automobile, ha venduto in tutto il 2024 appena 2.000 EV. KG Motors, invece, ha già bruciato la concorrenza con 2.250 ordini confermati. Una start-up semi-sconosciuta rischia di battere il colosso da 275 miliardi di dollari sul suo stesso campo. Ridicolo? No, chirurgico.

Kusunoki lo dice con candore e veleno: “Le auto sono semplicemente troppo grandi.” Traduzione libera: il Giappone ha bisogno di meno SUV e più neuroni. L’idea è semplice e devastante: fare un’auto per uno, non una per tutta la famiglia. Una filosofia tanto banale quanto eretica in un paese dove l’auto ancora è status, non strumento.

Toyota, da parte sua, continua a giocare il ruolo del profeta ambiguo: un piede nei combustibili fossili, uno nei sogni a idrogeno, e un altro (che non ha) nell’elettrico, purché ibrido. La loro visione multipiattaforma è una forma elegante di immobilismo, un modo per non perdere la faccia davanti a un’evidenza mondiale: la transizione EV non è più un’opzione, è già realtà.

Peccato che il popolo giapponese si fidi ancora ciecamente del verbo Toyota. Se dicono che gli EV non servono, allora sarà vero. Eppure, come diceva Mark Twain, “Quando ti accorgi di essere dalla parte della maggioranza, è tempo di fermarti e riflettere.”

Intanto, il mercato domestico degli EV è un deserto: appena il 3,5% del totale venduto nel 2023, contro una media globale del 18%. In Cina – dove anche l’ultimo contadino ha un’app per monitorare la batteria del trattore – l’EV è diventato pane quotidiano. Il Wuling Mini EV, venduto a prezzi da snack, ha fatto impazzire milioni. Perché? Perché è piccolo, economico, utile. Semplice, no?

Il mibot, con il suo design da insetto urbano e l’autonomia da pendolare, entra in questa stessa narrativa: democratizzazione elettrica, ma con l’estetica del rasoio laser. La sua costruzione minimalista – un motore, una batteria, qualche cavo, tutto montato su un telaio monoscocca – è geniale nella sua brutalità. Meno pezzi, meno problemi, meno costi. Filosofia lean alla giapponese, ma senza il santino di Toyota appeso al muro.

La produzione inizierà a ottobre in una fabbrica appena fuori Hiroshima, con 300 unità da consegnare in pochi mesi. L’azienda prevede di andare in pari con il secondo lotto e poi puntare alle 10.000 unità annue. E qui si gioca la vera partita: non la tecnologia, ma l’accessibilità. Gli EV continueranno a fallire finché costeranno come un rene, e consumeranno come una fabbrica solo per produrre.

KG Motors, invece, scommette sulla domanda latente e ignorata: anziani bloccati in campagne senza trasporti, giovani che non vogliono o non possono permettersi auto da 3 milioni di yen, famiglie con tre parcheggi e due stipendi da part-time. Il 95% degli ordini del mibot proviene da persone che già possiedono almeno un’auto. Non stiamo parlando di conversione ecologista, ma di integrazione funzionale: un veicolo personale per la mobilità quotidiana, zero fronzoli.

Chi vive a Tokyo non può capire. Lì c’è la metro, c’è Uber, c’è tutto. Ma basta uscire da Shibuya per rendersi conto che la periferia giapponese è in coma logistico. Nessun treno, pochi bus, tassisti in via d’estinzione. Serve un mezzo personale. E il mibot è l’unico che ha il coraggio di dire che uno basta.

Le immagini pubblicitarie non mostrano lifestyle americani o sorrisi di famiglie in giardino. Mostrano crash test contro muri, curve strette nei vicoli, neve di Hokkaido. Una comunicazione ruvida, quasi punk. Ma sincera. E qui si intravede il tocco dello YouTuber: vendere il sogno, ma sotto forma di incubo utile.

La partita si giocherà nei prossimi mesi. BYD ha già fiutato l’opportunità e sta progettando un kei car elettrico. Hyundai ha lanciato l’Inster, a 2,9 milioni di yen, cioè quasi tre volte il mibot. Una lotta tra Davide e Golia, dove Davide ha le ruote piccole ma l’anima grossa.

KG Motors potrebbe anche fallire, certo. Ma ha già fatto qualcosa di fondamentale: ha rotto il silenzio culturale sul futuro dell’auto giapponese. Ha dimostrato che non serve essere Tesla per cambiare le regole. Basta capire il contesto, agire localmente, pensare come un outsider e costruire come un ingegnere.

In un’epoca dove l’hardware è sempre più una commodity e il valore si sposta sull’esperienza, la mobilità non si misura in cavalli ma in logica. E il Giappone ha bisogno di logica, non di nostalgia.

Perché, alla fine, non serve una navetta per Marte per andare a comprare il latte. Serve solo qualcosa che ci porti da A a B. E magari che non ci costi lo stipendio, lo spazio in garage e l’anima.

Il mibot? Non è il futuro. È il presente che qualcuno ha avuto il coraggio di guardare.