La notizia è di quelle che fanno alzare il sopracciglio anche ai più abituati al cinismo del capitalismo digitale. Il New York Times, simbolo storico del giornalismo d’élite, ha stretto un accordo pluriennale con Amazon per concedere in licenza la propria intelligenza editoriale. Tradotto: articoli, ricette, risultati sportivi e micro-pillole informative verranno digeriti, frammentati e recitati da Alexa, il pappagallo AI che ti sveglia la mattina e ti ricorda che hai finito il latte. E ovviamente, serviranno anche per allenare i cervelli artificiali di Amazon. Così, con un colpo solo, Bezos si compra l’eloquenza della Gray Lady e un po’ del suo cervello.

Certo, l’operazione viene incorniciata nella retorica del “giornalismo di qualità che merita di essere pagato”, ma sotto la lacca da comunicato stampa si intravede chiaramente il vero motore: una guerra di trincea tra editori tradizionali e giganti dell’IA per stabilire chi paga chi, quanto e per cosa. Dopo aver querelato OpenAI e Microsoft per “furto su larga scala” di contenuti più di qualche milione di articoli usati per addestrare modelli linguistici il New York Times si è infilato nel letto con un altro dei grandi predatori della Silicon Valley.

Una mossa coerente, se per “coerenza” intendiamo la capacità di monetizzare ciò che prima si difendeva a colpi di copyright.

L’accordo non ha cifre pubbliche, ovviamente. Quando un colosso tech si compra la voce della tua azienda, il prezzo non si discute nei bar, si sussurra nelle stanze insonorizzate. Però sappiamo cosa ottiene Amazon: accesso illimitato alla biblioteca semantica del giornale più influente del mondo, declinata anche attraverso i suoi satelliti di contenuto: The Athletic, per lo sport, e NYT Cooking, per chi ha bisogno di ispirazione culinaria tra una notifica di guerra e l’altra.

È l’integrazione perfetta per Alexa Plus, l’assistente IA “potenziato” lanciato da Amazon: un prodotto che aspira a diventare la tua segretaria culturale personale, senza avere la decenza di chiedere il permesso prima di spiarti mentre parli di politica o fai la lista della spesa. Ma almeno, ora, ti leggerà contenuti “di qualità”.

La verità dietro questo accordo è una scomoda verità industriale: gli editori sanno che la partita si gioca su chi possiede la materia prima per addestrare l’IA. E quella materia è il contenuto testuale, strutturato, coerente, ricco di relazioni semantiche: in breve, il giornalismo professionale. Solo che mentre la generazione precedente di motori di ricerca si limitava a rimandare gli utenti ai siti delle testate (con tanto di pubblicità), le AI generative fagocitano l’articolo, lo riscrivono in un tono rassicurante e robotico, e ti danno l’illusione di non aver più bisogno della fonte.

Perciò ora i giornali chiedono il pizzo, o diventano partner. Il NYT ha scelto il secondo scenario, a pagamento, per ora. Mentre altri – come The Intercept o Raw Story – stanno ancora con l’ascia in mano davanti al tribunale.

C’è un’ironia sottile e perfida in tutto questo: la stampa, che per anni ha accusato Google e Facebook di cannibalizzare l’informazione senza restituire nulla, oggi apre le porte alle AI pur di racimolare qualche milione in licenze. Forse non è ipocrisia, è solo adattamento darwiniano nella giungla post-digitale. Ma non illudiamoci: ogni pezzo letto da Alexa, ogni contenuto usato per “allenare” i modelli, costruisce un mondo dove il giornalismo umano diventa meno centrale, e dove i contenuti sono percepiti come commodity: fungibili, replicabili, senza firma.

Il vero punto di rottura è proprio questo: il giornalismo non viene più letto per la firma, ma per l’utilità. E se un’AI riesce a generare una risposta utile, anche ispirandosi a contenuti pagati a caro prezzo da reporter e redattori, allora l’utente medio non si farà troppe domande. Perché la velocità batte la profondità, la voce di Alexa batte il pensiero critico, e il riassunto batte l’analisi.

A lungo termine, ciò che si profila è un paradosso da manuale: i giornali servono per alimentare le AI, ma le AI rendono superflui i giornali. Come i cavalli che trainavano i primi vagoni ferroviari: fondamentali all’inizio, ma destinati all’oblio non appena la macchina può correre da sola.

E il New York Times? Ha scelto di essere il cavallo più elegante della stalla, consapevole che correre davanti, almeno per qualche giro, paga. Ma il destino è scritto nelle righe di codice e nei dataset: la voce del giornalismo, ormai, è quella dell’algoritmo.

“Alexa, raccontami una barzelletta”.
“Certo. Un giornalista, un avvocato e un algoritmo entrano in un bar… ma poi il bar chiude. Era diventato un prompt.”