La mossa è chirurgica, ma il bisturi è arrugginito e il paziente è globale. Gli Stati Uniti, ancora una volta, tirano il freno a mano sull’export tecnologico verso la Cina, questa volta colpendo il cuore invisibile dell’innovazione: l’Electronic Design Automation, EDA per gli adepti, il software che non costruisce chip, ma li rende possibili. Senza EDA, progettare semiconduttori diventa un’arte rupestre. Lo riferisce il Financial Times, sempre più simile a un bollettino di guerra commerciale piuttosto che a un quotidiano economico.

Ma andiamo con ordine, se ordine si può chiamare questa escalation da Guerra Fredda digitale. A partire da maggio 2025, ogni singolo byte di software EDA che voglia attraversare il Pacifico verso Pechino dovrà essere accompagnato da una licenza di esportazione concessa – o negata – dal Bureau of Industry and Security del Dipartimento del Commercio USA. E no, non si tratta più solo di tool per chip all’avanguardia: adesso il divieto si estende a tutta la linea di prodotti, dall’entry-level al bleeding edge. Anche i cacciaviti digitali sono considerati arma strategica.

Cadence, Synopsys, Siemens EDA: i tre grandi sacerdoti dell’automazione elettronica sono stati avvisati. O almeno, così sembra. Perché nel teatrino dell’ambiguità istituzionale americana, le dichiarazioni ufficiali si alternano a fughe di notizie, smentite a metà, silenzi burocratici e conferenze stampa che sembrano più un test di Turing che una comunicazione trasparente. Sassine Ghazi, CEO di Synopsys, giura di non aver ricevuto alcuna notifica formale. Ma nel frattempo prepara il mercato a una previsione di calo dei ricavi in Cina. Come dire: nessuno ci ha detto niente, ma ci comporteremo come se l’avessero fatto.

Il risultato? Cadence crolla dell’11%, Synopsys del 13%. E qui scatta il paradosso: nel tentativo di soffocare la capacità tecnologica della Cina, Washington finisce per strangolare anche le sue multinazionali. È come cercare di affondare una barca bucando il proprio scafo. I titoli tech americani diventano ostaggi delle decisioni geopolitiche, e gli investitori iniziano a fuggire come topi da un Titanic in reverse.

La keyword è chiara: Electronic Design Automation. Ma attorno ad essa orbitano altri due termini che pesano come macigni: controlli di esportazione e competizione tecnologica. Non siamo davanti a una semplice normativa commerciale. Qui si sta ridisegnando l’architettura stessa del potere digitale globale. Senza EDA, la Cina non può progettare i suoi chip, o almeno non in tempi compatibili con la tabella di marcia di Xi Jinping per l’autosufficienza tecnologica. Ma attenzione: il tempo, in questa guerra, è l’arma vera.

Perché se la Cina è costretta a reinventarsi un’intera infrastruttura software – dalla simulazione di circuiti al layout fisico – non è detto che ci riesca velocemente. Ma non è neppure detto che fallisca. Anzi, la storia recente insegna che ogni blocco imposto dagli USA ha generato una reazione ipertrofica dall’altra parte del mondo. Huawei è ancora lì, per quanto castrata, e sta costruendo chip a 7nm senza ASML. Una bestemmia ingegneristica che diventa realtà sotto la pressione delle sanzioni.

In fondo, le sanzioni sono come le mutazioni genetiche: la maggior parte è dannosa, ma alcune fanno evolvere la specie. Costringere la Cina a sviluppare un proprio ecosistema EDA è un rischio strategico, ma anche una scommessa sulla lentezza dell’innovazione. Peccato che il Partito Comunista Cinese non sia noto per la sua pazienza. E meno ancora per la sua passività.

E mentre il Dipartimento del Commercio esaminerà ogni licenza “caso per caso” (con i tempi della burocrazia post-bellica e l’efficienza di un fax del 1997), le aziende cinesi potrebbero accelerare la migrazione verso soluzioni interne, aprendo la porta a startup di Stato che diventeranno colossi nel giro di un lustro. Chi oggi guarda a Cadence come l’unico dio del design, domani potrebbe leggere il nome di un concorrente scritto in caratteri hanzi.

“Chi controlla il software, controlla il silicio. Chi controlla il silicio, controlla il mondo.” Non l’ha detto Kissinger, ma forse avrebbe voluto. Dietro a questa nuova stretta sulle esportazioni non c’è solo protezionismo economico, c’è un tentativo disperato di conservare l’egemonia digitale. Ma bloccare l’accesso non equivale a bloccare l’ingegno.

Il vero rischio è che, mentre gli USA blindano le porte, la Cina impari a costruire muri più alti. E nel mondo dell’intelligenza artificiale, dove chip e cervelli sono ormai intercambiabili, chi resta indietro non può nemmeno capire quanto lo sia. Non è una questione di dominio: è una questione di sopravvivenza industriale.

Nel frattempo, Wall Street si accorge che l’ipernazionalismo tecnologico ha un prezzo. Non è solo la Cina a perdere accesso. Sono le big tech USA a perdere clienti. Clienti affamati, liquidi e disposti a tutto pur di rimanere nella corsa. Per ogni licenza negata, c’è una backdoor cinese pronta a spalancarsi. E per ogni chip che non si può progettare a Shanghai, c’è un PhD del Tsinghua pronto a creare un’alternativa.

La domanda, allora, non è se la Cina resterà indietro. La domanda è: per quanto ancora l’America riuscirà a restare davanti, ora che ha deciso di combattere anche contro i propri interessi?

Perché si può vincere una battaglia spegnendo il software. Ma una guerra, quella vera, si vince solo progettando il futuro. E il futuro, a quanto pare, sta migrando altrove.