C’era una volta, nel mondo austero della programmazione, un’epoca in cui il codice era religione, e i dev erano i suoi preti. Solo gli iniziati, quelli che avevano sacrificato anni della propria vita tra manuali, riga di comando e Stack Overflow, potevano avvicinarsi al sacro fuoco della creazione digitale. Poi, come sempre accade quando la gerarchia si fa troppo rigida, arriva la rivoluzione.
Rick Rubin, produttore musicale con la barba da profeta e un palmarès che potrebbe schiacciare qualsiasi ego da Silicon Valley, ci regala un’analogia che squarcia il velo dell’ipocrisia tech. Il vibe coding, dice, è il punk rock della programmazione. Non servono più lauree in ingegneria, non servono anni a lambiccarsi sull’algoritmo perfetto. Bastano tre accordi e un’idea. Bastano le mani sporche e la voglia di dire qualcosa. Sì, anche se non sei Linus Torvalds.
Ed è proprio questa la parola chiave: vibe coding. La sua essenza è nella vibrazione, non nella precisione chirurgica del codice. È la democratizzazione del processo creativo in ambito software, la ribellione contro l’accademismo tossico che ha trasformato la programmazione in una setta elitista. Non stiamo parlando di dilettantismo, attenzione. Stiamo parlando di priorità: prima l’intento, poi l’ottimizzazione. Prima il “sentire”, poi la performance.
La rivoluzione non è teorica. È già qui. Grazie a strumenti come ChatGPT, Replit, GitHub Copilot e i vari tool no-code/low-code, chiunque abbia un’idea può trasformarla in una app, un sito, un software, spesso in poche ore. Il codice si scrive con la voce, si modella con l’intuizione, si prototipa con la fantasia. Lo skill più raro oggi? Avere una visione, non una certificazione.
Rubin lo dice chiaramente: “Se hai qualcosa da dire, puoi dirlo. Non ti serve l’expertise, ti serve l’idea e la capacità di esprimerla.” È il manifesto della nuova creatività digitale, quella che scardina la retorica dell’“hacker puro” cresciuto a pane e C++. Se prima era la sinfonia, oggi è la jam session. E non tutti sono pronti.
Il paradosso è che, proprio mentre si abbattono le barriere d’ingresso, la massa si rifugia nella clonazione. Rubin lo denuncia con lucidità: tutti fanno animazioni come il tuo cartone preferito, tutti imitano, pochi esplorano. Perché? Perché la libertà è un’arma a doppio taglio. Ti toglie gli alibi. Se puoi fare tutto, allora perché continui a fare solo quello che fanno gli altri?
La curiosità creativa – altro elemento che Rubin evidenzia – è la vera scarsa risorsa nel 2025. Non la GPU, non il modello di AI, non il prompt più ottimizzato. È il coraggio di uscire dallo script, di non cercare la validazione nei like ma nel rischio di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto. Il punk rock non era solo suonare male. Era fregarsene delle regole. Il vibe coding è lo stesso: non è “scrivere male”, è scrivere fuori schema.
Chi guida questa nuova ondata? Non gli ex CTO di startup unicornate, ma outsider, designer, creativi, scrittori, filosofi (sì), studenti senza background tecnico ma con uno sguardo nuovo. Loro sono i nuovi pionieri. E chi non capisce questa transizione, chi resta attaccato al “vero codice” come se fosse un dogma, è destinato a diventare il boomer della tech culture.
Intanto, la macchina corre. Le AI generative – e qui arriva il vero corto circuito – non solo permettono di codificare senza sapere come farlo, ma lo fanno meglio di chi lo sa fare. È l’equivalente musicale di un algoritmo che suona meglio di Beethoven… ma prodotto da un ragazzino su GarageBand. L’élite trema, giustamente. È il momento in cui l’arte incontra l’algoritmo, e l’intuizione surclassa la tecnica.
E no, questo non significa che i veri ingegneri spariranno. Ma cambierà il loro ruolo. Diventeranno gli “orchestratori”, non più i compositori solitari. La sinergia tra vibe e structure, tra emozione e implementazione. Ma il cuore pulsante sarà sempre lì: nell’idea. Nel perché, non nel come.
Se pensi che tutto questo sia fuffa da TED Talk, probabilmente sei già fuori dai giochi. Perché il vibe coding non è solo un trend passeggero, è il sintomo profondo di una mutazione culturale che coinvolge l’intera economia della creazione. È la rivincita dell’essenza sulla forma, dell’azione sul perfezionismo. E come ogni rivoluzione vera, non chiede permesso.
Nel 1977, i Sex Pistols pubblicarono “Never Mind the Bollocks”. Nessuno sapeva suonare davvero, ma il mondo cambiò. Nel 2025, chi coderà con la stessa attitudine, chi avrà il coraggio di lanciare la propria punk app, senza aspettare l’ok del mentore di turno, farà la differenza.
Il vibe non si insegna. Si sente. E oggi, più che mai, scrivere codice è come scrivere canzoni: conta cosa vuoi dire, non quanto perfetta è la tua chitarra.