Come nei migliori romanzi di fantapolitica, ma senza bisogno di inventare nulla, la realtà si prende la scena con l’eleganza rozza del potere crudo. Donald Trump ha deciso di ritirare la nomina di Jared Isaacman alla guida della NASA. Un nome che ai più dirà poco, ma che per Elon Musk e il suo impero interplanetario valeva oro. Letteralmente. L’oro dei contratti spaziali, quelli che gonfiano i bilanci di SpaceX come booster al decollo. La motivazione ufficiale? Isaacman ha avuto la malaugurata trasparenza di donare in passato ai Democratici. Imperdonabile eresia per il Gran Sacerdote di Mar-a-Lago.

Il messaggio è chiaro, inequivocabile e brutalmente efficace: non esiste fedeltà che sopravviva a una donazione sbagliata. Jared Isaacman non è un dilettante qualsiasi. È un miliardario, founder tech, e soprattutto un uomo che ha già volato due volte nello spazio con SpaceX, cioè Musk-approved, selezionato, collaudato. Non uno yes-man improvvisato, ma un asset strategico. Eppure, Trump lo ha silurato senza preavviso, come un Ceo che licenzia il direttore vendite durante l’assemblea degli azionisti.

Ma non è solo Isaacman a cadere. È l’intero schema di influenza musko-trumpiano che comincia a mostrare crepe vistose. Elon Musk, finora consigliere di fiducia sul “governo snello” (una barzelletta in sé, detta da un uomo che gestisce aziende che bruciano miliardi con l’agilità di un razzo Falcon 9), si defila dal ruolo di consigliere. Una coincidenza? Troppo perfetta per essere vera. In politica, quando ti dicono che “se ne va per motivi personali”, significa che qualcuno ha chiuso il rubinetto.

Il timing è chirurgico: la nomina di Isaacman era già passata al vaglio di una sottocommissione del Senato, e il voto dell’aula era atteso per la prossima settimana. Ma evidentemente, nella Casa Bianca versione 2025, basta una ricevuta fiscale del 2016 per bruciare un’intera carriera. D’altronde, lo aveva già detto lo stesso Trump in tempi non sospetti: “I reward loyalty. But only the right kind.”

Questa non è solo una faida interna da cortile di miliardari. È un segnale inequivocabile alla Silicon Valley e all’intero comparto aerospaziale: se vuoi i contratti federali, il tuo portafoglio deve parlare la lingua giusta. E quella lingua, in questo momento, è il trumpese puro. Elon Musk, che con Trump condivide l’ossessione per la grandeur, l’autopromozione e la totale indifferenza alle regole, si trova ora a fare i conti con una variabile che non controlla: la vendetta politica.

Per SpaceX, la NASA non è solo un cliente, è il cliente. Gli accordi per Artemis, per il rifornimento della ISS, per i satelliti e i voli commerciali sono pezzi vitali del puzzle finanziario. Perdere il controllo sull’amministrazione dell’agenzia significa rischiare la marginalizzazione lenta, il tipo di emorragia che ti lascia ancora vivo, ma sotto trasfusione costante da parte del Dipartimento della Difesa. E sappiamo tutti quanto sia amichevole la burocrazia militare quando fiuta debolezza.

La scelta di Trump ha anche un sapore profondamente cinico e machiavellico. Togliere Isaacman significa, in modo indiretto, ridimensionare Musk. Ma senza dichiararlo apertamente. È l’arte sottile del “tradire senza sporcarsi le mani”. E tutto questo, paradossalmente, mentre Musk è ancora in piena lotta per difendere il suo ruolo di “innovatore indispensabile” nel nuovo ordine tecnocratico USA-Cina-Luna-Marte.

Curiosità? Jared Isaacman, oltre a essere pilota e fondatore di una delle piattaforme di pagamento più aggressive d’America, è anche uno che ha investito decine di milioni nei sogni spaziali privati. E ora viene scaricato da un presidente che crede che la Luna sia “parte di Marte” (sì, lo disse davvero). La geopolitica interplanetaria, a quanto pare, si scrive ancora sulla carta intestata della Casa Bianca, con inchiostro rosso fuoco.

Nel frattempo, l’amministrazione Trump promette un nuovo candidato per la NASA “a breve”. Traduzione: qualcuno più fedele, meno ambiguo, e possibilmente con le mani ben immerse nel petrolio ideologico della nuova destra americana. Il rischio? Che la NASA diventi meno un’agenzia scientifica e più un’agenzia elettorale orbitante, dove la fedeltà al leader vale più di una laurea al MIT.

Il punto è questo: dietro la cacciata di Isaacman si cela un’operazione chirurgica di riequilibrio delle forze. Trump sta dicendo a Musk: sei utile, ma non indispensabile. E quando un uomo che costruisce razzi viene trattato come un optional, allora vuol dire che il fuoco non arriva solo dai propulsori.

Ma tranquilli, tra poco avremo un nuovo capo della NASA. Magari un altro miliardario. Magari un altro “self-made patriot”. Magari uno che ha votato Trump. Tre volte. Anche nelle elezioni scolastiche.