Nel grande circo algoritmico di Menlo Park, Mark Zuckerberg ha appena tolto un altro coniglio dal cilindro: pubblicità completamente automatizzate tramite intelligenza artificiale. Non nel futuro remoto, ma entro il 2026. Non si parla di strumenti di supporto alla creatività umana, né di prompt da perfezionare. Il piano già abbozzato nei suoi discorsi e ora dettagliato dal Wall Street Journal è cristallino: tu, caro brand, carichi un’immagine del tuo prodotto, imposti un budget e Meta ti restituisce una campagna pubblicitaria completa. Dove, come, quando e a chi mostrarla? Decide l’AI. Tu fidati.
Il paradosso è sottile e velenoso: mentre il marketing tradizionale ha sempre messo il cliente al centro, qui si mette il modello predittivo al comando. Benvenuti nell’era della pubblicità senza umani, né da una parte né dall’altra. Una pubblicità che non parla più, ma calcola.
Quello che Meta sta orchestrando non è un semplice avanzamento tecnologico, è uno shift epistemologico. La pubblicità come flusso generato, ottimizzato, reiterato e mutato in tempo reale da un sistema opaco che si auto-addestra. Il creativo pubblicitario, una delle figure mitiche del capitalismo culturale del Novecento, si dissolve tra le righe di codice. L’agenzia pubblicitaria diventa una nota a piè di pagina. Il target diventa pattern, cluster, comportamento predetto. E, ironicamente, tutto questo per vendere magliette.
Zuckerberg, con il suo solito sorriso da Gioconda su ketamina, l’ha già venduto come un trionfo della semplificazione. Niente più A/B testing manuale, niente più asset creativi frammentati, niente più spreco di budget su audience sbagliate. L’algoritmo saprà già tutto: dove vive il cliente ideale, che umore ha alle 18:34 del mercoledì, se preferisce l’immagine con cielo nuvoloso o quella con tramonto in stile Bali. Se l’utente è a Chicago, l’AI genererà automaticamente una scena urbana con skyline compatibile. Se è in Toscana, via con colline e cipressi. Geopersonalizzazione visiva in tempo reale.
Per chi ha vissuto l’era in cui le campagne venivano pianificate su tavole di carta lucida e presentate in PowerPoint da team in doppiopetto, è un cambio traumatico. Ma la logica è perfetta per Meta, che vive dell’ossigeno dei dati e sogna un mondo dove la creatività non disturba il rendimento. L’AI non sciopera, non chiede aumento, non si preoccupa del messaggio, solo del conversion rate.
E qui si tocca il cuore oscuro della faccenda: l’efficienza come unico criterio di verità. Quando tutto è ottimizzato, tutto è anche appiattito. L’advertising diventa invisibile, liquido, ambientale. L’utente non capisce nemmeno più se sta guardando un contenuto o un’esca. E magari è proprio questo l’obiettivo.
Il modello è pericolosamente seducente per le PMI. Nessuna agenzia, nessuna strategia, nessuna curva di apprendimento. Solo una dashboard, un click, e via. Sembra la democratizzazione definitiva del marketing, ma è anche la sua piattaforma di sorveglianza definitiva. Ogni clic, ogni scroll, ogni esitazione, ogni stop sulla timeline: tutto nutre il sistema che poi decide come venderci qualcosa che non sapevamo di volere.
Curioso come il nome “Meta” significhi “oltre”, mentre qui si tratta chiaramente di “saltare sopra”. Sopra la creatività, sopra l’etica, sopra la trasparenza. Una pubblicità che non racconta più storie, ma inietta probabilità.
E che dire dell’industria pubblicitaria stessa? Sarà la nuova Hollywood dei licenziamenti. Copywriter e direttori creativi, finora protetti dal mantello della soggettività, vedranno il loro lavoro ridotto a un dataset di prompt. Una campagna di successo potrà essere replicata all’infinito, con varianti generate in millisecondi. Nessun bisogno di “brainstorming”, solo modellazione e deployment.
Il pubblico non se ne accorgerà, e forse è questo il dettaglio più inquietante. La promessa del machine learning pubblicitario non è di persuadere meglio, ma di persuadere senza attrito. L’utente, coccolato da un feed cucito su misura, non sentirà il morso della manipolazione. La pubblicità non interromperà più, semplicemente scivolerà dentro.
Ecco allora che il ruolo dell’inserzionista cambia radicalmente. Non è più narratore, ma fornitore di materia prima: immagini, budget, magari un paio di valori aziendali se proprio insistete. Il resto lo decide l’algoritmo, che ha imparato da miliardi di interazioni cosa funziona meglio. Tu sei la mucca, Meta è il casaro. Il formaggio lo mangia qualcun altro.
Secondo alcuni analisti, la direzione è inevitabile. Le piattaforme sono too big to explain, figuriamoci da discutere. L’AI pubblicitaria porterà ROI più alti, CTR più aggressivi, una filiera ottimizzata e scalabile. Ma in questo scenario iperautomatizzato, una domanda rimane: chi sarà responsabile quando la pubblicità diventerà tossica, manipolativa o semplicemente sbagliata? Quando un’AI targetizzerà un adolescente fragile con prodotti dimagranti, chi risponderà? Il codice?
Il futuro dell’advertising, almeno secondo Meta, sarà senza attrito, senza umani, senza memoria. Un’orgia di efficienza dove tutto può essere testato, cambiato, ottimizzato. Ma in cui nessuno si prende la briga di chiedere: e se invece fosse tutto sbagliato?
“Un tempo vendevamo sogni. Ora vendiamo percentuali”, avrebbe detto Don Draper se fosse stato costretto a lavorare con ChatGPT e un cruscotto pubblicitario pieno di KPI. Ma in fondo, chi ha più tempo per sognare, quando il sogno può essere automaticamente generato al 98,7% più efficace?