Era tutto troppo bello per durare. Il bromance postmoderno tra Donald Trump ed Elon Musk una miscela tossica di testosterone, libertarismo fiscale e narcisismo performativo — ha cominciato a scricchiolare sotto il peso di una delle cose più antiche del mondo: i soldi. Ma non soldi qualsiasi. Parliamo del disegno di legge sulla spesa federale, un pachiderma legislativo definito da Musk come “disgustoso abominio”, con un vocabolario degno di un predicatore texano in un rave.

Ecco che, a pochi giorni da uno scambio di pacche sulle spalle nello Studio Ovale, il fondatore di SpaceX e Tesla nonché ora Oracolo anti-burocrazia di X (ex Twitter) decide di fare quello che gli riesce meglio: cambiare campo nel mezzo della partita. Un click, un tweet, e l’algoritmo dell’indignazione è servito. Nel mirino non solo il Congresso, ma l’intera architettura politica statunitense che, secondo Musk, ha ormai abdicato al suo mandato popolare.

Il tempismo è tutto. Proprio mentre Trump cerca di tenere insieme il fragile castello di carte del Partito Repubblicano, litigando con libertari recalcitranti come Rand Paul, Musk si inserisce nella conversazione come un esplosivo inserito in un frullatore. Un tweet dopo l’altro, attacca la “spesa scandalosa” e lancia l’anatema: “a novembre del prossimo anno, licenzieremo tutti i politici che hanno tradito il popolo americano”.

Nessuna menzione diretta a Trump, certo. Ma lo spettro è lì, grande come un razzo Starship sul punto di esplodere al decollo. Perché è Trump che sta spingendo per una rapida approvazione della manovra. E Musk lo sa perfettamente.

Qui il sottotesto è fondamentale. Musk non è un ingenuo. Quando lancia i suoi dardi retorici, sa dove andranno a cadere. Sta parlando ai suoi follower, agli orfani della Silicon Valley post-pandemica, ai cripto-anarchici col portafoglio su Binance e l’avatar con la bandiera di Gadsden. È una chiamata alle armi contro il compromesso, il governo, il “deep state” e, se serve, anche contro l’ex amico Donald.

E Trump? Da parte sua, gioca il ruolo del vecchio leone: imprevedibile, permaloso, vendicativo come un algoritmo di Facebook in astinenza da dati. Ha già ritirato — con un guizzo più da reality che da politica la candidatura di Jared Isaacman alla guida della NASA. Un nome, guarda caso, molto vicino proprio a Musk. Un modo come un altro per far capire chi comanda, per ricordare che il potere, in ultima analisi, passa ancora per Washington, non per Boca Chica.

La domanda che inizia a serpeggiare tra i corridoi del potere tech è: e se questa guerra fredda diventasse calda? Se lo scontro fra Musk e Trump degenerasse davvero in una rottura visibile, una sorta di divorzio tra le due anime della destra postmoderna americana — quella dell’uomo forte e quella dell’uomo-macchina?

Perché, diciamolo chiaramente, Musk non è solo Musk. Dietro di lui ci sono manager, investitori, CEO e ingegneri che negli ultimi anni hanno flertato con l’idea trumpiana di distruggere il sistema dall’interno, ma con l’aspettativa segreta di poterlo poi ricostruire a propria immagine e somiglianza. Se Musk rompe con Trump, questa illusione cade come un NFT nel 2022.

Certo, l’ecosistema tecnologico americano è ben più sfaccettato di un tweet velenoso. Ma in un’epoca in cui la politica si gioca a colpi di social signaling e alleanze liquide, il prezzo della disobbedienza può essere alto. E la tecnologia, che ha sempre desiderato essere “post-politica”, si ritrova ancora una volta nel cuore della tempesta.

Non illudiamoci: non si tratta di una lite tra miliardari egomaniaci, ma di una partita esistenziale sul futuro del potere. Chi guida il cambiamento? Il governo eletto o le élite tecnocratiche? Lo Stato-nazione o le reti globali? Il voto o l’algoritmo?

Il vero abominio, forse, non è la spesa. È l’illusione che si possa ancora separare l’ingegneria sociale dalla politica, come se i bilanci non fossero anch’essi, in fondo, linee di codice con cui si programma la società.

E come sempre, quando i miliardari litigano, sono gli altri a pagare la bolletta.