C’era una volta un’America che investiva solo in casa, con orgoglio patriottico e la presunzione di avere un primato tecnologico inalienabile. Poi è arrivata DeepSeek, un colosso cinese dell’intelligenza artificiale capace di mandare nel panico anche i più sfrontati VC di Sand Hill Road. All’improvviso, Silicon Valley si è ricordata che la Cina non è solo TikTok e supply chain: è anche cervelli, codice e modelli linguistici che, udite udite, funzionano.

È in questo contesto che Joshua Kushner, rampollo mediatico e fondatore di Thrive Capital, ha deciso di mandare i suoi emissari a Pechino. Non lui personalmente, per carità: l’odore della geopolitica è troppo forte. Ma il messaggio è chiaro come un alert su Bloomberg: la fame d’intelligenza artificiale non conosce confini. Neppure quelli sanciti da decenni di paranoia bipartisan tra Washington e Zhongnanhai.

Kushner, fratello di Jared (quello che cena a Mar-a-Lago), ha negato ufficialmente ogni interesse finanziario in Cina. Eppure i suoi si sono seduti con fondi locali, hanno scambiato informazioni, valutato sinergie. E soprattutto, hanno annusato l’aria. Che profuma di potenza algoritmica e ambizioni globali.

Anche Capital Group – uno dei più grandi asset manager del pianeta – ha fatto lo stesso. Una visita “di esplorazione”, si dice. Ma in finanza, si esplora solo ciò che si è già pronti a conquistare. E quando il gioco vale miliardi, nessuno fa turismo industriale per sport.

Il tutto avviene mentre Benchmark Capital – che non è esattamente un investitore di provincia – decide di guidare un round su Butterfly Effect, la creatura dietro Manus, un servizio AI emergente con una peculiarità imbarazzante: i fondatori parlano mandarino, e molto probabilmente pensano in renminbi.

Certo, sul profilo LinkedIn dicono di essere a Singapore. Strategia nota, vecchia quanto le Cayman. Ma i nodi vengono al pettine, e Washington se n’è accorta. Il Tesoro americano ha già cominciato a fare domande. Il che, tradotto dal burocratese, significa che la guerra fredda tecnologica tra USA e Cina ha appena trovato il suo nuovo fronte: la finanza computazionale.

In questo scenario distopico, Joshua Kushner diventa il simbolo di un’ambiguità strutturale: patriottismo in pubblico, rendimenti in yuan dietro le quinte. Thrive, come tanti altri, sa che la vera AI generalista non sarà “made in USA” per forza. Il decennio in corso ci sta mostrando che modelli come DeepSeek, InternLM o lo stesso Manus possono fare concorrenza – e in alcuni casi superare – ChatGPT o Claude.

La narrazione dominante negli States continua a oscillare tra due estremi: “la Cina copia tutto” oppure “la Cina ci sorpasserà e ci ruberà l’anima digitale”. Ma mentre i think tank pubblicano white paper su “strategic decoupling” e il Congresso discute bandi e blacklist, i capitali si muovono silenziosi, rapidi e ambigui. Come sempre.

E qui c’è un dettaglio rivelatore, quasi ironico: Benchmark, uno dei primi investitori in Uber, è ora al centro di uno scandalo latente perché osa finanziare una start-up fondata da cinesi. Ma Manus, a sua volta, ha già raccolto più di 10 milioni di dollari da nomi come Tencent, ZhenFund e HSG (ex Sequoia China). Insomma, il core di questa nuova intelligenza artificiale è già un melting pot sino-occidentale. E questo manda fuori giri il falco medio del Dipartimento del Tesoro.

In fondo, è lo stesso vecchio problema: gli Stati Uniti vogliono controllare l’evoluzione della tecnologia globale ma non possono rinunciare ai rendimenti esotici che derivano da essa.

Le AI cinesi, una volta guardate con sufficienza, oggi vengono studiate come si osserva un concorrente che, inspiegabilmente, gioca meglio, più in fretta e con meno bug. Il fatto che Thrive e Capital Group siano saliti sul primo volo per Shanghai significa solo una cosa: le regole del gioco sono cambiate.

E poco importa se l’amministrazione Trump – quella passata, ma forse anche la prossima – promette pugno duro con Pechino. I soldi parlano, e parlano la lingua dei modelli transformer. Non quella degli editoriali sulla sicurezza nazionale.

Joshua Kushner, che nel tempo libero posa con Karlie Kloss per le riviste patinate, sa perfettamente che l’AI non ha confini morali. Ha solo metriche di performance. E oggi quelle metriche stanno emergendo anche fuori dai centri di calcolo di Nvidia in California.

Quello che sta accadendo, senza dichiarazioni ufficiali né breaking news in prima serata, è un lento slittamento dell’asse dell’innovazione. E gli investitori americani – i più rapaci e meno ideologici del pianeta – lo sanno benissimo. Se il cervello del prossimo supermodello sarà cinese, vogliono almeno possedere parte della sua corteccia prefrontale.

Quindi sì, Thrive “non ha intenzione di investire in Cina”. Certo. Come no. Anche Enron non aveva intenzione di fallire.

Intanto, a Shenzhen e Hangzhou, si sviluppano AI che sanno scrivere codice, creare sintesi visive, automatizzare supply chain e – perché no – disegnare avatar per e-commerce più intelligenti di quelli venduti oggi su Shopify.

E forse un giorno scopriremo che i più patriottici VC americani erano anche i primi a firmare i term sheet. Solo che non lo hanno fatto da Palo Alto. L’hanno fatto da Singapore. Con un proxy. Con la benedizione del ROI.