IBM e AMD hanno appena fatto outing: vogliono inventarsi la supercazzola definitiva del computing e l’hanno chiamata “quantum-centric supercomputing”. Dietro l’etichetta scintillante, l’idea è semplice e devastante: unire i computer quantistici con l’infrastruttura di calcolo classica ad alte prestazioni, CPU e GPU inclusi, in un ibrido che promette di stracciare i limiti del silicio tradizionale. Il CEO di IBM, Arvind Krishna, l’ha messa giù con un understatement degno di un diplomatico, parlando di un “powerful hybrid model”. Tradotto: non basta più avere il computer più veloce del mondo, bisogna riscrivere l’architettura stessa del calcolo.
Wall Street ha applaudito con il riflesso pavloviano dei trader: +1,4% IBM, +1,6% AMD nella stessa giornata. Nulla rispetto al +37% che AMD ha già messo a segno quest’anno, ma il segnale è chiaro. I chipmaker e i dinosauri del mainframe stanno smettendo di guardarsi in cagnesco e iniziano a formare alleanze che odorano di geopolitica digitale. Non è un matrimonio di amore, è un matrimonio di necessità. La corsa al quantum non si vince da soli, e ogni mese che passa rende più evidente che la supremazia in questo campo non è solo scientifica, è militare, economica e culturale.
IBM non parte da zero. A giugno aveva già messo in vetrina il progetto Starling, che secondo la compagnia rappresenta un “percorso praticabile” verso un computer quantistico fault-tolerant entro la fine del decennio. Tradotto in marketing aggressivo: 20.000 volte più potente delle macchine quantistiche di oggi. Una dichiarazione che suona tanto come “abbiamo visto il futuro e siamo già lì”, peccato che per ora il futuro sia fatto di prototipi fragili e rumorosi, dove il vero traguardo è stabilizzare qualche centinaio di qubit senza che collassino sotto il proprio peso. Ma la narrativa funziona. Google ha già acceso la miccia lo scorso anno con il suo chip quantistico capace, a detta loro, di risolvere in 5 minuti problemi che ai migliori supercomputer classici richiederebbero dieci settiglioni di anni. Un numero così assurdo che suona più come poesia futurista che come informatica.
Il punto è che nessuno, nemmeno Nvidia con la sua aura da demiurgo dell’AI, crede davvero che avremo quantum computer “utili” prima di quindici anni. Jensen Huang stesso ha dovuto fare marcia indietro dopo aver gettato acqua fredda sul sogno quantistico. Ma in un settore drogato di storytelling e hype, la percezione conta più della realtà. Parlare oggi di quantum-centric supercomputing significa conquistare investitori, ricercatori e governi con la promessa di un mondo dove il calcolo non ha più limiti.
La retorica è chiara: IBM vuole scrollarsi di dosso l’immagine polverosa da colosso in declino e posizionarsi come architetto del nuovo ordine computazionale. AMD, dal canto suo, cerca di capitalizzare l’onda lunga della sua leadership nei chip AI e HPC, spingendo le GPU in un ecosistema che fino a ieri sembrava un dominio esclusivo di Google, Microsoft e delle startup quantistiche. È una partita a scacchi giocata con hardware esotico e software che ancora non esiste, ma la scacchiera è reale e le mosse contano. Chi si siede al tavolo oggi, domani potrebbe controllare il cuore dell’infrastruttura digitale mondiale.
C’è anche un lato ironico in questa corsa. Da un lato si annuncia l’arrivo di computer che teoricamente stracciano qualsiasi limite immaginabile, dall’altro la comunità scientifica continua a ricordare che per rendere davvero utile un quantum computer servono decenni di lavoro sporco su materiali, error correction e modelli matematici. Ma la narrativa pubblica non ha tempo per la cautela accademica. Ha bisogno di titoli forti, di promesse di “20.000 volte più veloce”, di analogie iperboliche con tempi cosmici che fanno sembrare i supercomputer odierni ridicoli. È il teatro necessario per giustificare investimenti miliardari e per creare la percezione che il futuro sia già iniziato.
Il risultato è che IBM e AMD hanno trasformato una partnership di ricerca in un messaggio geopolitico. Non è più solo una questione di ingegneria, è branding nazionale e corporate positioning. Il quantum-centric supercomputing diventa una bandiera da piantare nel terreno della prossima rivoluzione tecnologica. Non importa se il terreno è ancora paludoso e instabile: nella corsa all’oro, chi arriva per primo con la pala spesso non trova pepite, ma vende pale a tutti gli altri.
Vuoi la verità scomoda? Questo annuncio non cambierà nulla domani mattina, ma tra dieci anni potrebbe segnare chi siederà sul trono del calcolo globale. O IBM e AMD riusciranno a costruire davvero un’architettura che fonde qubit e transistor in un continuum senza soluzione di continuità, oppure scopriremo che il “quantum-centric” era solo l’ennesima buzzword che Wall Street ha comprato sulla fiducia. Intanto le azioni salgono e gli analisti si fregano le mani. Chi traduce meglio il linguaggio dei mercati, oggi, non è un computer quantistico ma l’antica e collaudata arte del marketing.