AMC Networks e Runway

L’intelligenza artificiale generativa non è più l’ospite invisibile nella stanza dei bottoni di Hollywood. Con la partnership tra AMC Networks e la startup Runway, la tecnologia non sta più bussando alla porta: ha buttato giù i muri, ha messo i piedi sul tavolo e ha iniziato a scrivere le sceneggiature. Previsualizzazioni generate da AI, campagne marketing senza un solo ciak, versioni alternative di film per fasce d’età modellate da algoritmi: questo non è il futuro della TV via cavo, è il presente, spudorato e inequivocabile.

AMC ha abbracciato la generative AI come se fosse l’ultimo superstite capace di salvare un modello industriale in agonia. E forse lo è. Perché nel 2025, nessuno ha più voglia — né budget — di perdere sei mesi in una stanza buia a fare storyboard per qualcosa che potrebbe non vedere mai la luce. E se una rete storica come AMC, madre di capolavori narrativi come Breaking Bad, accetta che una scena possa essere “simulata” prima ancora che uno scenografo calchi il set, allora il sipario è già calato sul modo tradizionale di fare TV. Hollywood non gioca più a fare l’artista. Gioca a ottimizzare.

Runway non è un partner tecnico. È un grimaldello culturale.

La startup è celebre per i suoi modelli video generativi, capaci di trasformare semplici prompt testuali in sequenze audiovisive credibili. Ma in questa mossa c’è molto di più della mera efficienza produttiva. C’è una strategia di colonizzazione semantica, in cui l’intelligenza artificiale non si limita ad automatizzare, ma si insinua nei processi cognitivi dell’industria creativa. Pensare che la AI venga usata solo per risparmiare tempo è un po’ come dire che l’adozione del digitale ha servito solo a risparmiare carta.

AMC e Lionsgate stanno ristrutturando, con chirurgica freddezza, l’intera pipeline del contenuto. Iniziare a produrre prima ancora di girare, costruire trailers o teaser senza set né attori, generare “cut” alternativi per mercati diversi (con contenuti modulabili a seconda di sensibilità, età, geografia)… è un cambio epistemico. Il contenuto non è più un bene finito da distribuire, ma un fluido algoritmico da adattare al contesto, come un filtro di Instagram.

Questa dinamica porta a una disintermediazione del talento. Se un pitch può essere simulato in tempo reale, con un prototipo video in stile Spielberg o Pixar prodotto in due giorni da un creativo junior con accesso a Runway, il produttore smette di scommettere su idee. Scommette su prompt. Gli autori diventano prompt engineer con pretese da artista. I registi? Supervisionano set che potrebbero non esistere mai davvero. Il talento, una volta sinonimo di genio, rischia di essere ridotto a una variabile ottimizzabile, misurabile, addestrabile.

Hollywood, in questo senso, non sta solo accettando l’intelligenza artificiale. Sta cambiando natura per accoglierla.

La promessa — o la minaccia, dipende dai punti di vista — è che l’AI possa democratizzare la narrazione. Ma qui il verbo “democratizzare” è come una medicina che cura il dolore tagliando i nervi: elimina il problema, ma anche la sensibilità. Non è forse curioso che, mentre gli sceneggiatori scioperavano contro l’uso massivo dell’AI, AMC stringesse accordi con chi promette di renderli irrilevanti? La Silicon Valley ama “disintermediare” i mestieri che non ha mai compreso fino in fondo. E Hollywood, sotto i debiti e con i ricavi pubblicitari che collassano, è un paziente facile da sedurre.

Quello che è iniziato come un esperimento — qualche deepfake qua, un po’ di rotoscope lì — è ora un protocollo sistemico. La parola chiave non è più “creare”, ma “scalare”. E questo spiega anche la partnership parallela tra Runway e Lionsgate: la casa che ha dato i natali a Hunger Games ora produce varianti del contenuto come se stesse testando sapori di patatine per il pubblico globale. Più dolce in Corea, meno violento in Germania, con più romance in Brasile. Contenuto fluido, come codice. Una strategia perfetta per l’era dell’hyperpersonalization, dove il tuo gusto non è un’opinione, ma un dataset.

La reazione del pubblico? Nessuna sommossa, nessun boicottaggio. Perché l’intelligenza artificiale ha già vinto quando non si nota. L’utente medio, sommerso da TikTok, Reels e Netflix, non distingue più tra il vero e il generato. Anzi, spesso lo preferisce. “Sembra troppo perfetto per essere girato” è ormai un complimento. Il pubblico ha normalizzato l’artificiale come estetica, prima ancora che come tecnologia.

Hollywood, allora, non è solo entrata nella fase dell’intelligenza artificiale. Ha delegato la propria identità all’intelligenza artificiale.

Il passaggio da “aiuto alla produzione” a “struttura narrativa di base” è stato silenzioso, come tutte le rivoluzioni decisive. Prima era post-produzione, ora è pre-produzione. Prima era marketing, ora è ideazione. Prima era sperimentazione, ora è core business. AMC non sta solo risparmiando tempo: sta dicendo che la creatività industriale non è più il frutto del rischio, ma del calcolo. Non servono più visionari: bastano tool.

E chi non ha capito questo meccanismo si ritroverà a bussare alle porte di studi dove non servono più attori di talento, ma attori di training set. O peggio: non servono più attori.

“Una volta, per creare un universo narrativo, servivano sceneggiatori, registi, storyboarder e set. Oggi basta una GPU con abbastanza RAM”, sussurra ironicamente un ingegnere della Runway su X. E non sta nemmeno scherzando.