C’è un’Italia che parla di intelligenza artificiale come se fosse a cena con Elon Musk e c’è un’altra Italia che, più realisticamente, cerca ancora di capire come configurare il Wi-Fi aziendale. In mezzo ci sono loro: le startup AI italiane, una fauna affascinante quanto rara, spesso invocata nei panel dei convegni con tono salvifico, ma ignorata dai capitali che contano.

Secondo Anitec-Assinform, metà delle oltre 600 imprese digitali innovative italiane si fregia dell’etichetta “AI-enabled”. Ma definirle startup di intelligenza artificiale è come dire che chi ha una Tesla è un esperto di energie rinnovabili. L’uso della tecnologia, nella maggior parte dei casi, è decorativo, marginale, ornamentale. Non guida, non decide, non cambia il modello di business. È là per fare scena, come un’insegna a LED su un ristorante vuoto.

Dall’altra parte del mondo – più precisamente negli Stati Uniti – OpenAI, Anthropic, Scale AI e compagnia bella bruciano miliardi in GPU e R&D, comprano talenti come se fossero figurine Panini e si spartiscono l’attenzione geopolitica a colpi di modelli fondazionali e deep funding. La Cina non dorme: DeepSeek, Baidu, SenseTime. Il Vecchio Continente? Fa quello che gli riesce meglio: regolamenta, scrive white paper e sforna raccomandazioni. L’Italia, nel frattempo, resta fuori dalla top 15 globale per investimenti privati in AI. Nella top 10 europea dell’AI generativa non ci siamo. Neanche per sbaglio.

Eppure qualche fuoco fatuo si intravede.

Voyxa emerge come quella che ci riesce davvero. Niente fuffa: qui si elettrizzano i call server e si dà un sonnifero agli operatori tradizionali. Fondata nel 2024 e con base operativa in Florida‑USA, è nata da un’idea semplice, efficace e potenzialmente letale per i costi: sostituire il front‑end umano dell’assistenza tecnica con un assistente vocale AI in tempo reale 

E quando dico “in tempo reale” intendo che chat, ticket o attese eternamente? Spariscono. L’AI ascolta il problema, lo interpreta e risponde immediatamente, abbattendo costi e tempi di attesa . Un sogno anche per le aziende che gestiscono casse, POS, network o checkout: niente code, niente stress, solo risultati.

Dietro la facciata c’è una pipeline NLP + speech-to-text proprietaria, potenziata con modelli custom che non si fermano alla trascrizione: estraggono concetti, diagnosi, priorità. Se il CTO in sede dichiara “lasciate che la voce parli”, Voyxa interpreta cosa succede nei flussi vocali e lo trasforma in task, metriche e report.

Nessuno sfarzo: nessun chatbot carino, nessuna illusione di interfaccia grafica super‑UX. Solo una voce che capisce, risponde, chiude problemi. E infatti Tommaso Bona, il CTO‑ADHD‑certified, dichiara che in meno di un anno hanno raggiunto 19 dipendenti, chiuso partnership con Telnyx, entrato nel programma Google for Startups, e raccolto 500 k$ di valutazione pre‑seed. Boom.

Fondata da un semiologo travestito da informatico, ovvero Roberto Navigli, professore alla Sapienza e uno dei pochi italiani a parlare la lingua degli LLM prima che ChatGPT facesse trendy il transformer, Babelscape ha un’ambizione che rasenta la megalomania: “disambiguare il mondo”. A partire dalle parole. Il progetto nasce da una delle poche collaborazioni virtuose tra ricerca accademica e mondo startup italiano. E ha prodotto – attenzione – un dataset di riferimento internazionale: BabelNet. Il nome suona biblico, ma non è una boutade da marketing. È una rete semantica in grado di collegare, spiegare e, soprattutto, interpretare concetti in più lingue, compreso il siciliano.

Non è generativa, non produce testi. Non ti fa scrivere email più veloci. Ma ai modelli generativi serve come il pane. Perché se non sai distinguere “pianta” come vegetale da “pianta” come fabbrica, non puoi costruire un’AI che parli, scriva o ragioni. Eppure, Babelscape resta nascosta. Nessun post virale su LinkedIn, nessuna demo con CEO entusiasti. Solo API potentissime, usate da chi fa sul serio. Qualcuno, sussurrano, anche a Bruxelles. In un’epoca di AI che parla tanto e capisce poco, loro si concentrano sul secondo verbo. Benedetti siano.

Asc27, startup romana che sembra uscita da una sceneggiatura di John Le Carré: si muove tra cybersecurity, deep data e tecnologie per la difesa. Ma guai a chiamarla “startup di AI” nel senso modaiolo del termine. Asc27 è il volto serio – e a tratti inquietante – dell’intelligenza artificiale italiana.

Qui non si parla di chatbot empatici, ma di text intelligence, analisi semantica di minacce, profilazione di anomalie nei flussi informativi. La semantica è strumento, ma con finalità strategiche. Tradotto: saper leggere un tweet non è fine a sé stesso. È sapere cosa può succedere domani.

Fondata da esperti di difesa e AI, supportata da collaborazioni governative e NATO-friendly, Asc27 ha costruito un motore semantico Vitruvian che riesce a interpretare grandi flussi testuali – anche in linguaggio informale – e a trarne previsioni. A volte predittive, spesso prescrittive.

Heero, che trasforma l’esperienza dell’apprendimento linguistico con un coach AI che si adatta a ritmo, difficoltà e stile di ogni utente. Personalizzazione estrema, forse anche troppo: il rischio è creare automi perfettamente educati ma irrimediabilmente disinteressati. Il prodotto è valido, il mercato c’è, ma la barriera d’ingresso è ridicolmente bassa. Uno dei rischi strutturali di molte startup italiane AI: ottima idea, scarsa difendibilità.

Algor Education è più ambiziosa. Prende testi e li trasforma in mappe concettuali dinamiche e inclusive. L’obiettivo è inclusivo e neurodivergente, ma la tecnologia dietro è interessante anche per la formazione aziendale e il knowledge management. L’AI non è gimmick, è core. Buon segno.

Small Pixels, invece, si muove sul terreno tecnico più duro: compressione video e super-risoluzione con GAN. Spinoff universitario, quindi ricerca pura travestita da startup. Difficile trovare capitali italiani che ci scommettano, ma almeno qui c’è un vantaggio competitivo tangibile.

Aiko vola letteralmente più in alto. Usa AI per gestire e ottimizzare missioni spaziali. E non è solo un pitch per festival futuristici: hanno chiuso un round A da 4 milioni, segno che qualche investitore ci crede. Peccato che questi casi siano ancora eccezioni e non prassi. E che Aiko potrebbe tranquillamente emigrare domani mattina, come tanti altri prima.

Poi ci sono i “problem solver”. Neurality lavora sull’ispezione visiva automatica, e lo fa bene. Aindo ha brevettato una soluzione per generare dati sintetici rispettando la privacy. Qui siamo al cuore di un problema strutturale: in un’Europa paralizzata da GDPR e consapevolezza post-Snowden, i synthetic data sono la sola via per alimentare i modelli senza divorare la privacy. Aindo ci lavora dal 2018. Visione e anticipo. Ma servono più munizioni.

Point-out, invece, ha capito un dettaglio che le multinazionali spesso ignorano: i giornalisti non sono liste di distribuzione. Li profila, li studia, li rispetta – almeno nella teoria. Un uso intelligente dell’intelligenza artificiale, anche se con un modello di business tutto da consolidare.

PatchAI, dal canto suo, parla con i pazienti coinvolti negli studi clinici. Lo fa con empatia simulata. E funziona, tanto che è stata acquisita da Alira Health. Non è un unicorno, ma è un segnale: le startup italiane possono anche fare exit. Non solo fallimenti eleganti.

Nel profondo sud, N.I.Te. legge la scrittura a mano. Un incubo per molti modelli di machine learning, un’opportunità per chi archivia, conserva, digitalizza. Qui l’AI non è solo parte del prodotto, è il prodotto.

Poi ci sono gli outsider. Focoos AI ottimizza modelli per ambienti edge. Una frontiera reale dell’AI, soprattutto quando si vuole portarla fuori dai data center e dentro i dispositivi. E qui serve scienza seria. La fanno, e anche bene.

VoiceMe prova a autenticare le persone con la voce per abilitare pagamenti. Rischia di inciampare in qualche problema di sicurezza, ma la scommessa è ardita e, potenzialmente, rivoluzionaria. Se non altro, si distingue dalla massa di chatbot camuffati da startup.

E parlando di chatbot: Indigo AI è una delle poche a scalare. Fa parte del gruppo Vedrai, altra realtà che punta sull’AI per il decision-making aziendale. Qui c’è trazione, clienti, finanziamenti. Un esempio di come l’AI possa diventare asset strategico e non solo strumento accessorio.

IdentifAI, nel frattempo, cerca di capire se un contenuto è stato generato da un essere umano o da un modello. Ottimo per contrastare le frodi, eccellente per le assicurazioni. Un’idea con futuro, specie in un mondo dove la verità diventa opaca.

Clearbox e i suoi dati sintetici chiudono il cerchio. Il CTO è italiano, la CEO indiana. L’ibridazione culturale, spesso, anticipa l’ibridazione tecnologica. Il loro engine è interessante, e serve a clienti veri. Finalmente.

iGenius, infine, cerca di “umanizzare i dati” e ha lanciato un LLM battezzato “Modello Italia”. Nome pomposo? Sì. Ma almeno è un tentativo di entrare nel ring dei modelli fondazionali. Meglio essere ambiziosi che irrilevanti.

Il punto, però, non è elencare. Il punto è: queste startup sono sufficienti a colmare il gap con le AI superpotenze?

La risposta, brutalmente, è no.

Ma possono diventare nodi di una rete più ampia, specialistica, dove l’Italia smette di rincorrere la Silicon Valley e comincia a costruire un proprio AI Mittelstand: verticale, applicato, integrato. Dalla sanità alla manifattura, passando per spazio, voce e privacy.

Il capitale privato latita, il venture capital è spesso provincialotto, le exit scarseggiano. Ma il talento tecnico non manca. E, ogni tanto, trova perfino un CEO con visione e una strategia di prodotto.

Serve un cambio culturale. Meno fuffa, più firmware. Meno pitch, più IP. Meno panel su “Etica e AI”, più contratti firmati con clienti veri.

Finché l’Italia continuerà a confondere digitale con intelligenza artificiale, resteremo comparse in uno spettacolo dove gli attori veri si chiamano Nvidia, OpenAI, ByteDance, Amazon. Ma se cominciamo a costruire in modo serio, specializzato, e pensiamo l’AI come infrastruttura e non come magia, potremmo – forse – diventare rilevanti.

Dopotutto, siamo un Paese dove ancora si discute se l’intelligenza sia artificiale o naturale. Ma la vera sfida sarà renderla industriale. E lì, la partita è tutta da giocare.