Oracle scommette tutto sulla nuvola e prende a calci la vecchia guardia
Il vecchio dinosauro di Redwood Shores ha finalmente tirato fuori i denti. Dopo anni passati a inseguire i giganti del cloud come un avvocato stanco che rincorre le big tech in tribunale, Oracle sembra aver trovato il suo punto di pressione: l’IA. E i numeri, almeno per ora, sembrano dare ragione a Safra Catz, che con un candore quasi spietato ha sparato: “Le nostre percentuali di crescita saranno drammaticamente più alte.”
Tradotto dal cattivo gergo delle earnings call: Oracle prevede una crescita del 70% nel business cloud nell’anno fiscale in corso. Una cifra che fa sobbalzare anche gli algoritmi delle sale trading, visto che il titolo è salito di oltre il 6% nel dopoborsa. Chiariamolo subito: non è solo storytelling da CFO con l’occhio lucido e il power suit impeccabile. Dietro c’è una scommessa brutale da $25 miliardi di capex, spinti soprattutto da acquisti di GPU Nvidia e altri arnesi indispensabili per servire il grande banchetto dell’intelligenza artificiale generativa.
Nel solo trimestre chiuso a maggio, Oracle ha portato a casa $3 miliardi dal cloud, in crescita del 52%, rispetto al 49% del trimestre precedente. E stiamo parlando di un business che ha già superato i $10 miliardi annui. Non male per un’azienda che fino a qualche anno fa veniva percepita come un museo vivente di database e cause antitrust.
C’è un punto però che sfugge alla narrativa mainstream: Oracle non sta cercando di essere AWS o Google Cloud. Quella partita è già persa. Quello che sta facendo invece è molto più subdolo – e intelligente. Si sta posizionando come l’infrastruttura critica del cloud AI-driven, un po’ come quei fornitori silenziosi e ossessivi che riforniscono le centrali nucleari. Nessuno li cita nei podcast tech, ma senza di loro tutto il sistema collassa.
I server che Oracle affitta non sono solo rack con storage e CPU generiche: sono macchine cariche di GPU Nvidia, il combustibile fossile dell’era AI. E no, non stiamo parlando di collezionisti di token NFT. Parliamo di clienti enterprise, banche, aziende sanitarie, governi, e naturalmente start-up AI che hanno fame di potenza computazionale e sete di SLA inossidabili.
“It’s the chips, stupid”, avrebbe detto un vecchio stratega democratico. Oracle lo ha capito prima di altri e sta spendendo cifre monstre per costruire nuovi data center iper-specializzati. I $21 miliardi di capex dell’anno fiscale 2025 (contro i $14,1 dell’anno precedente) non sono casuali: sono un ponte armato verso il nuovo ordine economico dell’AI-as-a-Service.
E non è un caso che nomi come CoreWeave, tanto chiacchierati nelle cronache dei venture capitalist, vengano ormai citati come benchmark da battere. Oracle, pur essendo ancora molto più piccola di AWS e GCP nel cloud puro, ha costruito un’architettura ibrida che somiglia più a un meccanismo da hedge fund che a una tech company tradizionale. Poco rumore, molta leva operativa. E soprattutto, margini potenzialmente devastanti una volta che la spesa in capex si sarà assestata.
Ma attenzione, il rischio è tutto lì. Una spesa da $25 miliardi in un anno non è una passeggiata: è una dichiarazione di guerra. Se il mercato dovesse raffreddarsi, o se le promesse dell’AI dovessero deragliare nel prossimo round di delusioni hype-to-value, Oracle si troverà seduta su una montagna di hardware e ammortamenti da gestire. È il classico gioco del pollo nucleare: chi molla per primo perde tutto, ma chi tiene duro potrebbe trovarsi a dominare la catena alimentare del cloud.
C’è anche un sottotesto quasi ironico in tutto questo: Larry Ellison, eterno scettico della nuvola, è oggi il grande burattinaio dietro una delle più aggressive trasformazioni in ambito cloud del decennio. È come se Gengis Khan si fosse messo a dirigere un monastero zen. Eppure, funziona.
I mercati adorano le storie di redenzione, ma ancora di più adorano i numeri. E quelli, almeno per ora, parlano chiaro: se Oracle riuscirà a mantenere quel 70% di crescita, finirà per diventare un asset strategico più simile a una utility nazionale che a un semplice fornitore software. Un’evoluzione darwiniana, in piena regola, nell’ecosistema della computazione distribuita.
Quello che Oracle sta costruendo è, in fondo, un paradosso perfetto: un impero della nuvola, edificato su una montagna di ferro, rame e silicio. Una nuvola che pesa tonnellate e che non fluttua leggera sopra le nostre teste, ma ci piomba addosso come un jet carico di dati e deep learning.
A questo punto, resta solo una domanda da farsi: chi controllerà veramente il futuro dell’intelligenza artificiale – chi scrive i modelli o chi possiede i server che li fanno girare?
Spoiler: la risposta si misura in miliardi di dollari, e Oracle vuole essere la calcolatrice.