Il palcoscenico era pronto, i riflettori accesi, e poi… niente. Stargate, la presunta alleanza epocale tra Oracle, SoftBank e OpenAI per dar vita a un’infrastruttura da 500 miliardi di dollari destinata all’intelligenza artificiale, è ancora una chimera. Safra Catz, CEO di Oracle, lo ha dichiarato con candore durante l’ultima call sugli utili: “non è ancora stata costituita”.

Tradotto in lingua meno aziendalista: zero contratti, zero capitalizzazioni, zero concretezza. La notizia, apparentemente secondaria, è in realtà una delle più rivelatrici dell’intera earning season tech. Soprattutto perché smonta l’ennesimo castello di sabbia fatto di slide PowerPoint, pitch da venture capitalist post-pandemia e visioni da fantascienza di Larry Ellison, il demiurgo eterno della Silicon Valley che, all’età di 80 anni, continua a promettere più data center di quanti l’universo ne potrà mai ospitare prima dell’entropia finale.

Ecco l’ironia: mentre Stargate fluttua nello spazio della narrativa corporate come un monolite kubrickiano che nessuno ha ancora toccato, il vero motore di Oracle sta macinando record sotto traccia. Il cloud computing “vero” – quello fatto di hardware, server, cavi surriscaldati e contratti enterprise – è cresciuto del 50% nell’ultimo anno fiscale.

Oracle prevede un ulteriore 70% nel prossimo. Questo tipo di crescita, in un mercato ormai polarizzato tra colossi come AWS e Azure, è clamorosa. Non perché Oracle sia diventata improvvisamente la regina del cloud, ma perché parte da un livello talmente basso che ogni balzo percentuale ha l’effetto di una supernova.

Oracle è ancora una frazione rispetto ad Amazon Web Services, che viaggia su circa 100 miliardi di dollari annui, contro una decina scarsa del gigante fondato da Ellison. È la parabola di Oracle in accelerazione: impressiona, ma non sposta l’asse gravitazionale del settore AI.

Ma torniamo a Stargate, o meglio, alla sua assenza. Bloomberg aveva già rivelato a maggio che SoftBank, la cassaforte iperattiva di Masayoshi Son, non aveva ancora avviato la raccolta fondi necessaria per sostenere il progetto. Il motivo?

L’instabilità economica causata dalla nuova stagione di dazi imposti dall’amministrazione Trump 2.0 – un effetto geopolitico che spinge gli investitori a trattenere il fiato e i capitali.In uno scenario simile, Stargate assomiglia sempre di più a un’operazione di smoke and mirrors, utile a Oracle per mascherare un fatto ben più tangibile: ha finalmente trovato una nicchia nel mercato cloud, ma la sua narrazione rimane sproporzionata rispetto alla realtà.

Ellison, durante l’ultima call, ha superato sé stesso con una dichiarazione degna dei migliori profeti messianici della Silicon Valley: “Costruiremo e gestiremo più data center di infrastrutture cloud di tutti i nostri concorrenti messi insieme”.

Un’affermazione che, letta con la lente dell’ingegneria finanziaria e della fisica quantistica, è probabilmente falsa in almeno sei dimensioni.

Ma il punto non è la veridicità: è l’effetto che fa.Qui entra in gioco il paradigma di comunicazione di Oracle: creare un magnetismo narrativo che distoglie l’attenzione dai numeri assoluti e la concentra sulle curve di crescita, sulle promesse di scala, sull’immaginario.

È la stessa tecnica usata dalle startup in fase seed, ma con una capitalizzazione di mercato da big cap. In breve: Oracle si comporta da unicorno, ma con la barba bianca.Eppure, c’è un sottofondo più interessante, e riguarda la relazione con OpenAI.

Se davvero Stargate si materializzerà (spoiler: non prima del 2026, e solo se le condizioni macro lo permetteranno), allora sarà l’esperimento più ambizioso di ibridazione tra AI, hardware e geopolitica tech. Un tentativo di creare un’infrastruttura sovereign-proof, capace di resistere non solo alla concorrenza delle big tech, ma anche agli shock politici, ai black-out energetici e – perché no – alla fine della neutralità della rete.

Nel frattempo, però, Oracle corre. Con infrastrutture minimali rispetto a Google e Amazon, ma con un vantaggio inaspettato: una clientela enterprise più fedele, spesso ingabbiata in sistemi legacy che solo Oracle sa ancora gestire con competenza.

È la vendetta del vecchio mainframe, il ritorno delle architetture ibride e l’ennesima dimostrazione che la tecnologia avanza non con i PowerPoint, ma con i data center che funzionano alle 3 di notte quando tutto va storto.

A ben guardare, il cloud di Oracle non è affatto sexy. È grigio, polveroso, pieno di patch e middleware. Ma fa quello che promette. A differenza di Stargate.E in un’epoca in cui ogni CEO tech si atteggia a filosofo, forse la vera rivoluzione è tornare alla noia della stabilità. Come diceva Thomas Mann, “l’ordinario è già straordinario, se lo si osserva abbastanza da vicino”. Ma Ellison, si sa, preferisce la fantascienza.