Nelle strade di Los Angeles, dove la città ribolle sotto la superficie patinata da cartolina, 750.000 dollari di veicoli autonomi Waymo sono andati in fumo, letteralmente. Un incidente isolato? Una follia vandalica da parte di qualche sbandato con un accendino e troppo tempo libero? Forse. Ma più probabilmente è un sintomo. Un segnale. Uno di quei momenti che, se hai l’occhio giusto, ti fanno drizzare le antenne e ti obbligano a mettere in pausa l’entusiasmo da Silicon Valley.

I robocar sono diventati bersagli mobili. Ed è difficile non vedere un filo rosso che unisce le macchine sfasciate nelle rivolte americane alle caldaie rotte dei telai meccanici nelle campagne inglesi del 1811. Allora come oggi, non è la tecnologia il problema. È la disuguaglianza. È la percezione – spesso corretta – che il futuro sia stato rubato a chi non ha potuto comprarne nemmeno un biglietto.

Il Luddismo del XXI secolo non ha bisogno di Ned Ludd, l’eroe apocrifo degli artigiani inglesi, per trovare una forma. È più informe, più arrabbiato, più viscerale. Non organizza sindacati né scrive pamphlet: incendia robotaxi e poi posta la clip su TikTok. La nuova rivoluzione industriale, quella algoritmica, ha trovato la sua resistenza.

È interessante che questi atti si concentrino sugli artefatti dell’AI, e non su simboli tradizionali del potere economico. Non banche, non commissariati. Ma auto che non hanno un guidatore. Oggetti che incarnano – fisicamente – un mondo in cui l’umano viene decentrato, disintermediato, sostituito. Le Waymo non sono solo veicoli: sono il cavallo di Troia dell’automazione, parcheggiato nel quartiere sbagliato.

Ciò che le previsioni di molti futurologi dimenticano è che non basta che una tecnologia funzioni: deve essere anche legittimata socialmente. Le auto autonome possono anche dimezzare gli incidenti, ridurre traffico e inquinamento. Ma se la comunità le percepisce come strumenti di esclusione – automi che tolgono lavoro a chi non può permettersi nemmeno un Uber – allora il problema non sarà mai solo ingegneristico. Sarà antropologico.

Chi è il nemico, per le classi tagliate fuori dal “progresso”? Non Elon Musk o Sundar Pichai. Troppo astratti, troppo in alto. Il nemico è la macchina, che non guarda, non risponde, non media. È lo stesso riflesso tribale che portava i braccianti inglesi a distruggere i telai Jacquard, anche se sapevano benissimo che non bastava a salvare il proprio posto di lavoro. Si distrugge per mandare un messaggio, non per risolvere un problema.

Waymo ha le spalle larghe. Alphabet può permettersi qualche auto bruciata. Ma se l’adozione delle tecnologie autonome incontra ostilità crescente, il costo diventa sistemico. Ogni vandalismo diventa un deterrente. Ogni sabotaggio un argomento contro il rollout. È il principio del “social DDOS”: tanti piccoli atti di sabotaggio che, cumulati, rallentano il deployment di innovazioni teoricamente pronte ma non accettate. E l’adozione, si sa, è la vera metrica del successo.

Nei miei speech lo dico spesso: non c’è nulla di lineare nell’adozione del futuro. Gli storici della tecnologia parlano di “resistenze reattive”, momenti in cui il corpo sociale rigetta l’innesto tecnologico come un sistema immunitario allergico. A volte passa. A volte no. E quando no, nasce un conflitto. Non tra uomo e macchina – quella è roba da Hollywood – ma tra chi guida l’innovazione e chi si sente lasciato a piedi.

Un altro aspetto meno discusso ma fondamentale è il linguaggio stesso della tecnologia. Parlare di AI, di machine learning, di post-scarcity e superintelligenza può sembrare eccitante nei forum accademici o nelle call degli investitori, ma suona come fuffa marziana nelle strade di Compton o nei sobborghi di Oakland. La percezione di un’élite linguistica che plasma il futuro in una neolingua fatta di acronimi e buzzword aliena è un acceleratore del risentimento. Le Waymo diventano i carri armati di un’invasione culturale.

Ironia vuole che tutto ciò accada proprio mentre le aziende tech stanno tentando disperatamente di vendere l’AI come inclusiva, benefica, universale. È la stessa dicotomia che trovi nei comunicati stampa pieni di diversity e nei team esecutivi composti da ex McKinsey e venture capitalist bianchi in felpa Patagonia. L’incoerenza è il carburante della rabbia.

La promessa utopica della tecnologia – il famoso mondo di abbondanza automatizzata – si infrange sulla dura realtà di chi non ha mai visto un beneficio concreto dall’automazione. E non lo vedrà, se l’unico modo per accedere al futuro è tramite un’app su un iPhone che non può permettersi. I rivoluzionari dell’algoritmo ci raccontano che il mondo sarà più efficiente, più equo, più sostenibile. Ma cosa succede quando la sostenibilità è solo per chi può pagare l’abbonamento premium?

In fondo, stiamo solo ripetendo lo stesso copione di sempre. La differenza è che oggi le rivolte si fanno anche sui social, le macchine parlano da sole, e i protagonisti indossano occhiali AR invece di cappelli da fabbrica. Ma il cuore del conflitto resta immutato: chi controlla le leve della tecnologia, e chi resta a guardare dalla finestra mentre il futuro passa in modalità autonoma, senza nemmeno rallentare.

Una volta, gli operai cantavano inni di protesta nelle fabbriche. Oggi, i nuovi ludditi usano i joystick e gli spray. Il messaggio però è lo stesso: non ci rappresentate. Se non iniziamo ad ascoltare davvero quella rabbia, potremmo scoprire che il futuro non sarà solo più lento. Potrebbe essere anche molto, molto più infuocato.