«OUR DEAL WITH CHINA IS DONE» twitta Trump con la sobrietà di un adolescente che ha finalmente ricevuto un like da Elon Musk. È mercoledì mattina, e il Presidente più imprevedibile della storia americana getta la notizia come un osso a una stampa affamata: l’accordo commerciale preliminare con la Cina è stato raggiunto. Una dichiarazione che, in altri tempi, avrebbe acceso i riflettori di Wall Street come Times Square a Capodanno. Ma stavolta no. Il mercato scrolla le spalle, forse sbadiglia. Perché?

I negoziatori di Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un’intesa preliminare su un “quadro” generale, che ora verrà sottoposto ai rispettivi leader per la revisione, nel tentativo di riattivare l’accordo di tregua commerciale siglato a Ginevra il mese scorso.

Alla domanda su eventuali concessioni americane sul controllo delle esportazioni dopo i colloqui di Londra, la Casa Bianca ha evitato dettagli, ribadendo solo il rispetto dell’accordo di Ginevra. Secondo la portavoce Leavitt, la Cina si è detta disponibile ad aprire i suoi mercati agli USA in modo separato e ha acconsentito al rilascio di minerali strategici impiegati nei magneti, secondo i termini già pattuiti a Ginevra.

“Il nostro accordo con la Cina è concluso, soggetto all’approvazione finale del presidente Xi [Jinping] e del sottoscritto”, ha scritto Trump sulla sua piattaforma social Truth Social.

“I magneti completi e tutte le terre rare necessarie saranno forniti in anticipo dalla Cina. Allo stesso modo, forniremo alla Cina quanto concordato, inclusi gli studenti cinesi che frequentano i nostri college e università (cosa che mi è sempre andata bene!)”, ha scritto Trump.

“Stiamo ricevendo dazi totali del 55%, la Cina del 10%. I rapporti sono eccellenti! Grazie per l’attenzione!”

Pochi minuti dopo, Trump ha pubblicato un altro messaggio in cui affermava che lui e Xi avrebbero “collaborato strettamente” per “aprire la Cina al commercio americano”.

Su Yue, economista capo della Economist Intelligence Unit per la Cina, ha dichiarato che i dati sono poco chiari, forse volutamente, poiché Trump probabilmente ha preferito mantenere i dettagli ambigui, considerando che questa volta la Cina potrebbe aver ottenuto condizioni più favorevoli.

Ha dichiarato che la Cina avrebbe fornito magneti e terre rare, senza però chiarire cosa gli Stati Uniti offrissero in cambio, se non visti per studenti, ha spiegato Su. Tuttavia, la Cina difficilmente avrebbe accettato senza ottenere concessioni significative. Trump presenta l’accordo come una vittoria per gli Stati Uniti, ma in realtà potrebbe indicare che la Cina ha ottenuto maggiori benefici.

La parola chiave è deal, la keyword che per mesi ha acceso rally e vendite, ogni volta che veniva pronunciata con enfasi da un podio presidenziale o digitata in maiuscolo su Twitter. Ma oggi quella parola ha perso il suo potere taumaturgico. Gli investitori, scottati da mille false partenze, pretendono dettagli. E dettaglio è esattamente ciò che manca. Il comunicato non parla di tariffe, non cita date, non menziona proprietà intellettuale, sussidi industriali o misure di enforcement. Solo una vaga promessa di maggiore cooperazione e acquisti agricoli “massicci” da parte di Pechino. Tipo? Mais o illusioni?

Il settore tecnologico, da sempre in bilico sul filo della guerra commerciale, reagisce con cautela. I big dell’hardware, che assemblano in Asia e vendono in Occidente, si chiedono se ci sia davvero motivo di festeggiare. Apple sorride appena, Nvidia è distratta, e persino Tesla sembra più preoccupata dai tweet di Musk che dai proclami di Trump. Il comparto semiconduttori, notoriamente reattivo alle news su dazi e export ban, resta immobile come un hedge fund sotto audit.

E poi c’è la questione delle commodity agricole. Trump promette un’esplosione di export verso la Cina, ma il mercato dei futures sul grano e sulla soia si limita a un cenno d’assenso, come se stesse ascoltando per la settima volta la stessa barzelletta. Non basta la parola “acquisti record” per far volare i prezzi, soprattutto se ogni stagione di semina è ormai una stagione politica.

Anche il settore industriale, da Caterpillar a Boeing, osserva in silenzio. Se c’è davvero un’intesa, dove sono le tabelle? Le firme? Il pdf con la bandiera americana e quella cinese incrociate come in un film di Michael Bay? Per ora, nulla. Solo tweet e vaghezze.

I gestori di fondi, nel frattempo, leggono tra le righe. E sospettano. L’annuncio arriva in un momento strategico: la campagna elettorale è entrata nel vivo, e l’economia USA, sebbene ancora solida, mostra i primi segni di affaticamento. Un deal con la Cina, anche vago, può rinvigorire la narrativa trumpiana del “grande negoziatore”. Ma senza substance, il rischio è che il mercato tratti l’accordo come una notizia di seconda fascia, tipo la riapertura di un Apple Store in Kansas.

C’è poi un sottofondo geopolitico che rende tutto più viscoso. La Cina, mai così assertiva, gioca una partita complessa, fatta di rallentamento economico interno e posture muscolari in Asia-Pacifico. Accettare un accordo con gli USA può essere visto come un atto di debolezza interna, se non accompagnato da concessioni reciproche concrete. E Pechino, si sa, non è nota per i compromessi impulsivi.

Nel frattempo, l’indice VIX, termometro della paura di Wall Street, non si muove. Come se il mercato, nel suo profondo, non credesse più alle sirene dell’ottimismo preconfezionato. Persino Goldman Sachs, in una nota diffusa poche ore dopo il tweet presidenziale, si limita a un commento quasi rassegnato: “Attendiamo i dettagli tecnici prima di formulare una view definitiva”. Tradotto: “Aspettiamo di vedere se stavolta è vero”.

La parola volatilità resta sospesa nell’aria, come un drone sopra un corteo. E i settori più esposti – dalle esportazioni all’automotive – restano in attesa. Intanto gli algoritmi che dominano le sale trading di Manhattan hanno già digerito la notizia, l’hanno comparata con mille altre simili, e sono passati oltre. Per loro, il tweet di Trump è solo un’altra variabile nel modello.

Curioso notare che, proprio mentre Trump parlava di accordi, la Cina annunciava nuove politiche industriali mirate all’autosufficienza tecnologica. Un doppio gioco? Forse. O forse è solo la solita partita a scacchi geopolitici in cui ogni mossa ha tre significati, uno per il pubblico, uno per gli investitori e uno per il Politburo.

«La finanza è l’arte di passare i soldi di mano in mano fino a quando non scompaiono» diceva qualcuno, probabilmente con un sorriso amaro. Oggi potremmo dire che è anche l’arte di leggere tra le righe di un tweet, in attesa che le promesse diventino protocolli, e le dichiarazioni si traducano in bilanci.

Intanto, la Borsa guarda altrove. Forse verso la Fed, forse verso i dati occupazionali, forse verso il prossimo tweet. Perché nell’era della comunicazione presidenziale compulsiva, anche i mercati hanno imparato a filtrare il rumore.

Soprattutto quando l’unico rumore è un CAPS LOCK gridato nel vuoto.