A Roma, tra la placida eleganza barocca di palazzi e la tensione strisciante del futuro digitale, il keynote di Stefano Quintarelli al Namex 2025 ha fatto più rumore di quanto ci si aspettasse. Sotto la superficie rassicurante della retorica mainstream sul digitale come panacea universale, Quintarelli ha smontato pezzo dopo pezzo la narrazione dominante. E ciò che ne emerge è un paradosso: stiamo guadagnando valore, ma ne beneficiamo sempre meno. In fondo, è la stessa logica con cui si può morire di sete su una zattera in mezzo all’oceano.

Partiamo dai numeri, quelli veri. Quintarelli, con l’ostinazione di un filosofo prestato all’ingegneria e il rigore di un contabile, ha citato dati ufficiali del Bureau of Economic Analysis statunitense: se si includono i servizi nel calcolo della bilancia commerciale, e si aggiusta il tutto per l’inflazione – magari usando il 2007, l’anno dell’iPhone, come spartiacque simbolico – il famigerato deficit commerciale USA smette di sembrare una voragine apocalittica. Anzi, è sorprendentemente stabile. Le esportazioni crescono, le importazioni pure. Ma non c’è alcun abisso in allargamento. E allora perché tutti urlano alla fine del mondo?

Perché guardano dalla parte sbagliata. Il problema non è quanto vendiamo o compriamo. È cosa vendiamo e compriamo. La vera mutazione, il terremoto silenzioso, è il passaggio dall’economia dei beni fisici a quella dei servizi digitali. Una trasformazione così profonda che, a confronto, l’invenzione della macchina a vapore somiglia a un aggiornamento software.

Il Financial Times, sempre attento a leggere tra le pieghe del capitalismo globale, l’ha colto bene. In un recente articolo, ha analizzato la concentrazione estrema dei profitti nelle mani delle Big Tech americane. Mentre General Motors lavora con margini del 6-7%, Apple veleggia sopra il 25%. Non è solo una questione di scala, ma di architettura. I beni fisici sono distribuiti, costosi da produrre, legati a logiche di mercato più classiche. Il software, il cloud, l’intelligenza artificiale? Sono replicabili all’infinito, gestiti da oligopoli e con costi marginali prossimi allo zero. Con effetti devastanti.

Nel vecchio paradigma industriale, ogni fabbrica creava un ecosistema: operai, indotto, tasse, comunità. Oggi, una piattaforma digitale genera miliardi da un server farm in Nevada e non restituisce quasi nulla alla collettività. Il passaggio da valore distribuito a valore concentrato è il vero buco nero dell’economia contemporanea.

E non parliamo solo di etica. È un disastro fiscale. Le società digitali, ha denunciato Quintarelli, pagano imposte ridicolmente basse rispetto alle controparti manifatturiere. Il gettito fiscale crolla. Lo Stato si trova improvvisamente povero in un mondo sempre più ricco. Le scuole crollano, gli ospedali arrancano, le infrastrutture cedono. Ma i dividendi agli azionisti di Amazon arrivano puntuali.

L’Europa, e l’Italia in particolare, sono i dannati della rivoluzione digitale. In teoria, siamo i paladini della regolazione – il famoso Brussels effect che tutto il mondo ci invidia. Ma in pratica? Subiamo. E mentre ci auto-convinciamo di essere i custodi morali del cyberspazio, le nostre startup migliori finiscono in mani americane prima ancora di crescere. È il più sofisticato esproprio tecnologico degli ultimi cinquant’anni.

Non a caso, il Financial Times ha evidenziato come le acquisizioni di aziende tecnologiche europee da parte di colossi statunitensi stiano raggiungendo picchi mai visti. E questo non perché manchi talento in Europa. Ma perché manca un ecosistema in grado di trattenere, sviluppare e soprattutto valorizzare quel talento. Manca la base fiscale, manca la massa critica. E, soprattutto, manca una strategia geopolitica coerente.

Questa non è solo una questione economica. È una questione di sovranità. Quando il valore generato nel tuo paese prende il volo verso altre giurisdizioni fiscali, non perdi solo soldi. Perdi autonomia, potere, influenza. Ogni euro di imposta non pagata da una big tech è un euro in meno per decidere il tuo futuro.

Il paradosso è che gli Stati Uniti – teoricamente i più liberisti sulla carta – stanno iniziando a capire il gioco. I dazi di Trump, le regolazioni proposte da Biden, le indagini antitrust: non sono isterismi ideologici, ma tentativi maldestri di arginare una dinamica che sfugge a chiunque. E in Europa? Stiamo ancora discutendo se una tassa digitale del 3% sia “proporzionata”.

Nel frattempo, l’Italia – quarta potenza al mondo per esportazioni manifatturiere – continua a versare valore in una direzione sbagliata. Esportiamo beni ad alta intensità fiscale, importiamo servizi digitali a bassa tassazione. È un trade-off micidiale. E la cosa peggiore è che lo facciamo con entusiasmo. Abbiamo addirittura smantellato interi settori senza accorgercene, convinti che bastasse un’app per diventare “innovativi”.

Lo squilibrio è evidente, macroscopico, quasi grottesco. È come se una nazione intera si fosse specializzata nel costruire ponti, per poi vendere i bulloni a chi quei ponti li demolisce e ci costruisce data center.

Quintarelli lo chiama fallimento regolatorio, ma è qualcosa di più profondo: è una forma di autoinganno collettivo. Continuiamo a misurare il successo con le metriche sbagliate, accecati dalla crescita del PIL mentre l’economia reale si sbriciola sotto i piedi. Il digitale ci sta arricchendo e impoverendo allo stesso tempo. È una macchina perfetta per concentrare ricchezza e dissipare comunità.

La soluzione? Non esiste un’unica ricetta, ma serve un cambio di paradigma. Fiscalità intelligente, regolazione algoritmica, politiche industriali per il digitale. Soprattutto, serve smettere di credere che la tecnologia sia neutra. Non lo è mai stata. Chi controlla il software, oggi, controlla la realtà.

E chi crede che questo sia un dibattito per tecnocrati, dovrebbe guardarsi intorno: ogni ospedale in meno, ogni scuola che chiude, ogni strada che cede sotto l’incuria, è già il prezzo che stiamo pagando.

Altro che deficit commerciale. Questo è un deficit di futuro.