C’è un certo romanticismo tecnologico nel gesto di Mark Zuckerberg: pagare 14,3 miliardi di dollari per il 49% di Scale AI senza neanche volerla tutta, come se la posta in gioco non fosse l’azienda ma il cervello che la guida. Alexandr Wang, enfant prodige dell’intelligenza artificiale, CEO di Scale e prodigioso miliardario a 21 anni, passa ora sotto le insegne blu di Meta. Ma lo fa con un piede ancora nella sua creatura. Meta prende metà tavolo, ma lascia al giovane Wang il comando del mazzo.

La narrativa ufficiale è elegante, quasi diplomatica: Wang rimarrà nel consiglio di amministrazione di Scale, mentre guiderà un nuovo AI lab interno a Meta con l’obiettivo dichiarato – e volutamente iperbolico – di costruire una “superintelligenza”. Il ragazzo non prenderà ordini da middle manager, ma risponderà direttamente a Zuckerberg. Un’architettura di comando che ricorda da vicino l’acquisizione dei cervelli di DeepMind da parte di Google prima, e di OpenAI da Microsoft poi, anche se qui la struttura è un ibrido tra investimento e cooptazione.

La mossa ha lo stesso sapore delle chiamate dirette di Zuck via WhatsApp per strappare ricercatori a Google e Anthropic, con compensi a sette o otto zeri. I cecchini della Silicon Valley ora usano emoji e stock options, ma il bersaglio è chiaro: Meta ha bisogno disperato di cervelli. Non modelli, cervelli. Perché da quando Llama 4 è arrivato tardi, zoppicando, e con l’imbarazzo di essere stato pompato artificialmente in classifica, Meta ha perso il filo narrativo dell’IA.

I numeri non bastano più. Nemmeno quando, come dice lo stesso Zuckerberg, “Meta AI” ha raggiunto un miliardo di utenti mensili. Il numero è gonfiato da WhatsApp, Instagram, e Facebook dove l’assistente è praticamente impiantato nel sistema nervoso delle app. Ma la percezione rimane: ChatGPT è il riferimento, Claude di Anthropic l’outsider col pedigree, Gemini (ex Bard) di Google il colosso in rimonta. Meta? Meta sembra arrancare.

E allora si fa quello che si fa da sempre nella Silicon Valley: si comprano i muscoli intellettuali. Ma si evita accuratamente di comprare troppo, per non attirare gli squali dell’antitrust. La strategia è nota: investire senza acquisire, incassare il talento senza dover combattere un altro processo federale. Meta ha già i giudici alle calcagna per tentativi precedenti di espansione non proprio discreta. Acquisire solo il 49%, per di più in quote non votanti, è un capolavoro giuridico. Eppure sarà difficile che questa mossa sfugga a Washington, soprattutto perché Scale lavora anche con il Dipartimento della Difesa.

Sì, perché Scale AI è molto più che un’azienda che “etichetta dati”. È diventata un partner strategico per tutti, da OpenAI ad Anthropic, fino al Pentagono. Ha accordi con i governi asiatici ed europei. Recentemente ha firmato un contratto quinquennale con il Qatar per strumenti di IA applicata alla governance. Quello che fa è fondamentale: addestrare l’intelligenza artificiale con dati umani puliti, etichettati, verificati. La benzina sporca del machine learning diventa qui carburante per razzi.

E mentre Meta finge di comprare solo una quota minoritaria, il bottino vero è Wang, il ragazzo che da solo ha creato un’infrastruttura dati ora centrale per l’intero settore. È un po’ come se Google nel 2004 avesse investito in Wikipedia e assunto Jimmy Wales per costruire la sua Search. La forma giuridica è soft, ma l’intento è chiaramente egemonico.

Zuckerberg parla ormai senza inibizioni di AGI, intelligenza artificiale generale, e addirittura di “costruire superintelligenza”. Cose che fino a ieri erano considerate utopie da conferenza TED, oggi sono la missione del nuovo AI lab di Meta. In parallelo, il piano è di far diventare Meta AI “l’assistente personale leader al mondo”. Ma qui la competizione è spietata. Apple ha appena annunciato il suo sistema AI integrato con OpenAI su tutti i dispositivi, compreso Siri. Google affonda miliardi su Gemini. Microsoft ha integrato Copilot ovunque, da Windows a Excel.

Cosa ha Meta? Una montagna di dati sociali, un colosso pubblicitario, una VR che ancora non vola… e adesso, finalmente, il ragazzo giusto. Wang è l’asso. Lo è non solo per la sua storia, ma per la posizione strategica che Scale occupa nell’ecosistema dell’IA. In un mondo dove il valore è sempre più nei dati annotati – e meno nei modelli stessi, che tendono a convergere – avere il “fabbricante di dati” dalla propria parte è come avere l’unica fonte d’acqua nel deserto.

E qui scatta l’ironia: mentre Meta annaspa per tenere in piedi Llama 4 Behemoth, la versione muscolare ancora non rilasciata e già accusata di bluff, ora prende in casa l’uomo che fornisce l’ossigeno ai modelli di tutti gli altri. Non è solo una scelta strategica, è una vendetta fredda. Zuckerberg si è stancato di rincorrere. Ora vuole essere la piattaforma.

C’è qualcosa di subliminale in questa strategia. Meta non vuole vincere pubblicando il modello più grosso, ma diventando l’infrastruttura sottostante di tutta l’IA. Con Wang, può farlo. Può costruire il suo laboratorio segreto, assoldare i migliori, e iniziare a produrre internamente ciò che finora ha dovuto importare. E può farlo a modo suo: velocemente, fuori dai riflettori, con una mentalità da startup dentro un’azienda da miliardi.

D’altronde, come disse F. Scott Fitzgerald: “L’intelligenza suprema è la capacità di tenere in mente due idee opposte allo stesso tempo, e continuare a funzionare.” Zuckerberg sembra averlo capito. Acquisire senza acquisire, comandare senza votare, essere una Big Tech ma agire come una startup. È un’operazione schizofrenica, certo. Ma perfettamente coerente.

E se tutto va come spera, un giorno potremo dire che la superintelligenza artificiale è nata in una stanza di Meta, guidata da un ragazzo di 27 anni con un curriculum da leggenda, un azionariato strategico, e una missione: dimostrare che anche i giganti possono reinventarsi. Purché siano disposti a pagare abbastanza.