Mentre Sam Altman predica l’arrivo di AI capaci di “cognizione sbalorditiva”, i mercati finanziari, quelli veri, si inginocchiano non davanti a un algoritmo quantistico, ma a un pupazzo con la faccia da Joker mal riuscito: Labubu. Il produttore cinese Pop Mart è schizzato in Borsa con un +595% che nemmeno le migliori startup AI sognano di vedere. Nell’epoca in cui i bit dovrebbero governare i cuori e i portafogli, a dominare la scena è un feticcio di vinile e peluria, con gli occhi spiritati e il sorriso da psicopatico kawaii.

Paradossale? Solo se si crede ancora che l’intelligenza, artificiale o meno, sia la moneta corrente del XXI secolo. In realtà, a tirare il carretto dei miliardi è qualcosa di molto più antico, arcaico e animalesco: il desiderio. E Labubu, quel mostriciattolo con la postura da gremlin post-nucleare, ha toccato una corda che l’AI non potrà mai pizzicare: la fame di totem.

Perché Labubu è un idolo. Non un giocattolo, non un NFT tattile, non un’opera d’arte urbana in miniatura. È un oggetto transizionale di massa. Un Doudou con il pedigree dell’estetica creepy-cute. È un peluche, sì, ma nel senso in cui un peluche può diventare l’incarnazione del nostro trauma collettivo, addomesticato e rivenduto in edizione limitata.

Il suo successo non ha nulla di razionale. È marketing alchemico, desiderio sintetico. Ed è qui che Pop Mart ha sconfitto le AI: ha venduto emozioni, mentre gli LLM vendono sintassi.

Mentre noi discutiamo se GPT-5 comprenderà il senso dell’umorismo, Pop Mart lo incarna nel modo più destabilizzante: creando un oggetto che fa ridere e inquieta, rassicura e destabilizza. Labubu non è intelligente. È pop, nel senso baudelairiano: la bellezza è sempre bizzarra. E, per l’economia, la bellezza che genera attaccamento vale oro.

Floridi direbbe che siamo di fronte all’ennesima prova che la semantica batte la sintassi. Labubu non “serve”, non “risolve”, non “ottimizza”. Ma crea significato. Si insinua nella mente, ti fissa dallo scaffale, ti chiama per nome nei sogni. È il contrario dell’AI: è specifico, imperfetto, assurdo, disturbante. È umano.

I nerd dell’AI sgranano dataset e cercano pattern nei testi di Kant, ma intanto un gremlin con le orecchie a punta e un ghigno da maniaco sta colonizzando l’inconscio visivo di milioni di adolescenti asiatici (e non solo). Mentre l’Occidente si interroga sulla coscienza delle macchine, l’Est crea oggetti che evocano la nostra incoscienza più profonda. Freud avrebbe adorato Labubu. Jung lo avrebbe messo in una teca, accanto agli archetipi.

Il +595% in Borsa non è solo un numero. È un ceffone al culto della razionalità. È la prova che il valore non nasce dall’utilità, ma dall’attaccamento. E l’attaccamento nasce dall’irrazionale. O meglio, da ciò che sembra irrazionale ma che risponde a leggi precise: l’estetica, la nostalgia, il trauma, il desiderio.

E così, mentre le AI promettono di trasformare ogni interazione umana in un’efficiente transazione sintattica, Labubu ci ricorda che l’economia è ancora dominata dal feticismo della merce. Un feticismo che nessun Large Language Model potrà mai replicare, perché non puoi addestrare un modello a provocare attaccamento emotivo non funzionale. Non con i parametri, non con i token. Serve un ghigno.

Il successo di Pop Mart è una lezione brutale: le macchine possono imitare le parole, ma non possono inventare i miti. E in tempi di crisi di senso, il mito di un pupazzo con gli occhi spiritati può valere più di un chatbot con la voce di Scarlett Johansson.

La prossima volta che ti chiedono dove va il mondo, guarda meno i whitepaper di OpenAI e più gli scaffali di un centro commerciale a Shanghai. Perché l’umanità — nella sua forma più pura, più grezza, più compulsiva — non vuole una macchina che risponda a tutto.

Vuole un mostriciattolo con gli occhi sgranati che le dica, silenziosamente: anch’io non so perché sono qui, ma almeno ti tengo compagnia.